Rabbia, ribellione, rivoluzione nell’Italia di oggi

RIBELLIONE

 

Rabbia, ribellione, rivoluzione nell’Italia di oggi

L’ordine del mondo è sempre stato il risultato di varie tensioni, idealmente seguiti da accordi. Oscar Wilde sosteneva: “La disobbedienza, agli occhi di chiunque abbia letto la storia, è la virtù originaria dell’uomo. È attraverso la disobbedienza che i progressi si compiono, attraverso la disobbedienza e attraverso la ribellione».(L’anima dell’uomo sotto il socialismo, 1891). Forme di opposizione possono variare da quelle estremamente violente, come le guerre civili e le rivoluzioni, alle manifestazioni più tranquille di resistenza. La legittimazione del potere è in gioco ogni volta che un sistema politico o sociale è messo in discussione. Spesso la retorica della ribellione si basa sulla suddivisione in “noi” e “loro”. In molti casi il problema è stato risolto con successo dai negoziati, mentre in altri casi sono seguono scontri tra i due gruppi.

Gli ultimi anni hanno dimostrato che, indipendentemente da vari tentativi di evitare i conflitti, sia per gli Stati sia per le organizzazioni internazionali, l’opposizione è sempre coinvolta con i rapporti di potere che sono sfidati attraverso lo sforzo individuale o collettivo. Al giorno d’oggi, il mondo si trova ad affrontare gravi crisi e così si assiste sia a forme violente sia alla protesta non violenta. Martin Luther King ha riconosciuto l’importanza di entrambi. Anche se lui stesso ha privilegiato la resistenza non violenta, come diceva: “Una rivolta è la lingua dell’inaudito” (discorso tenuto a Birmingham, Alabama il 31 dicembre 1963).

Le varie definizioni di ribellioni e rivoluzioni sia in contesti letterari sia culturali sono elencate sinteticamente:

– Sfida alle autorità e ai funzionari
– Protesta contro i regimi e i sistemi totalitari
– Protesta individuale e sociale
– Disobbedienza civile
– Il terrorismo come strumento politico e ideologico
– ribellione (post) coloniale
– Visioni utopistiche e distopiche
– L’anarchismo come una forma di ribellione
– L’Occupy Movement
– L’anti-globalizzazione / movimento alter-global
– Il gap generazionale, i giovani nella (sub) cultura e la lotta per l’identità
– Le rivoluzioni sessuali
– Il femminismo
– I figli della rivoluzione
– La copertura mediatica della rivoluzione
– I media come strumento di rivoluzione

La disobbedienza civile è il rifiuto da parte di un gruppo di cittadini organizzati di obbedire a una legge giudicata iniqua, attuato attraverso pubbliche manifestazioni. La locuzione (civil disobedience) fu introdotta nel 19° sec., negli USA, dallo scrittore e filosofo H. D. Thoreau, imprigionato per essersi rifiutato di pagare le tasse legate alla guerra contro il Messico. La d. acquistò risonanza politica in India con il movimento di resistenza passiva proclamato su ispirazione di Gandhi dal comitato del congresso panindiano di Delhi (1921); iniziato con la salt tax protest march (marcia dall’interno alla costa per procurarsi il sale contro il monopolio britannico), ebbe fasi sempre più acute (nel 1930 fu estesa a ogni attività in rapporto col governo) e fu rilevante nel processo d’indipendenza dell’India.

Negli anni 1960 la d. ebbe diffusione negli USA a opera del movimento per i diritti civili promosso da M. L. King contro la discriminazione razziale. Anche la guerra del Vietnam portò a un vasto movimento di d. da parte dei giovani che si rifiutavano di ottemperare all’obbligo del servizio di leva.

In Italia, dopo il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare (1972), campagne di d. sono state condotte soprattutto dal Partito radicale (su temi come la liberalizzazione dell’aborto e delle droghe leggere) e dal movimento pacifista.

Oggi, la protesta individuale e sociale, come non mai, ha raggiunto elevati livelli. Si continua a vagheggiare una Politica (con la “P” maiuscola) in grado di risolvere i problemi senza chiedersi più seriamente quali siano le cause che hanno condotto alle “inevitabili” forme di protesta cui stiamo assistendo.

Basterebbe una politica con la p minuscola, purché ci fosse. Il problema invece è proprio questo: in Italia veniamo da un lungo periodo di latitanza della politica. E la politica altro non è che la capacità di scegliere, di decidere e di assumersene le responsabilità.

Le proteste e le contestazioni sono, innanzitutto, la reazione a questo vuoto o a una politica vissuta come rendita di posizione, quando non come arricchimento personale, e quindi del tutto fine a se stessa. In questa chiave le proteste, la disaffezione, i “grillismi” non vanno demonizzati né minimizzati, ma compresi nelle loro origini e cause scatenanti. Con serietà, umiltà e senza confondere cause con effetti. Perché se è vero che non si devono trasformare le vittime in carnefici, non si devono neppure scambiare i carnefici per vittime, come qualcuno invece, in modo miope e irresponsabile, ha fatto, per esempio, dopo l’attentato di piazza Montecitorio.

Ma una volta analizzati e valutati, i fenomeni di contestazione e le proteste richiedono risposte. E queste le può dare solo la politica. Piuttosto un appello forte e realista alle classi dirigenti. Se non si danno risposte alla domanda di lavoro e di redistribuzione dei redditi che cresce nella società, si rischia di innescare spirali di protesta distruttiva. Il problema è: c’è oggi una politica capace non solo di ascoltare parole come queste ma anche di tradurle in risposte? La sfida che, non solo l’Italia ma l’Europa, hanno di fronte nel prossimo futuro è proprio questa.

Rabbia, ribellione, rivoluzione nell’Italia di oggi

Gli attuali politici sono vecchi e i giovani incalzano

Gli attuali politici sono vecchi e i giovani incalzano

non-e-un-paese-per-giovani

Siamo diventati vecchi perché il pessimismo fa terra bruciata, siamo diventati vecchi perché stiamo lì a incazzarci quando ci dicono che siamo vecchi, siamo diventati vecchi da quando non ci sovviene più alla mente che le comunità locali, oltre che per essere frequentate, sono fatte per essere vissute; siamo diventati vecchi perché ci siamo chiudendo in teatri per parlare alla gente mentre evitiamo il confronto della piazza, siamo diventati vecchi invecchiati perché questo non è un paese per giovani, e i vecchi rimpiamgono la rivoluzione, pur non sapendo cosa sia, siamo diventati vecchi perché ci abbiamo in testa il pensiero del nostro placement, che tutto corrisponda al nostro target, siamo diventati vecchi perché, pur conoscendo i problemi, non troviamo ancora le soluzioni.

Potremmo rimediare facendoci da parte, dando la possibilità ai giovani di provarci a cambiare questo Paese. Potremmo… se fossimo più giovani, ma siamo diventati vecchi e pensiamo a sostenere che i più anziani i più esperti … ma che chiaramente non è vero. Continuano a venderci l’idea della loro esperienza, ma non menzionano che non ne avevano quando sono stati eletti da giovani.

Da quando nessuno ascolta i giovani, anche questi fanno i capelli bianchi. Da quando non siamo più giovani, garantiamo le raccomandazioni mentre dovremmo valutare i giovani secondo il merito. Da quando non siamo più giovani, tendiamo a sbiadire dietro una scrivania e non vogliamo sentir parlare di stage, prove o progetti, nell’attesa di andare in pensione. Da quando non siamo più giovani, sogniamo un paese a misura di vecchi, ma temiano che ci saranno troppi vecchi quando saremo vecchi.

Da quando i politici sono diventati vecchi, non vogliono lasciare le poltrone o ne vogliono occupare altre.

Questi politici non hanno smesso di fare politica perché sono diventati vecchi, ma sono diventati vecchi perché hanno smesso di fare politica.

Naturalmente non possiamo cambiare il passato. Ma le enormi risorse che i giovani potranno trasmettere anche in politica, con la loro gioia di vivere, sono lì e aspettano solo di essere riconosciute.

Gli attuali politici sono vecchi e i giovani incalzano

Abbiamo bisogno della rivoluzione civile

ImmagineDai tempi di “Mani pulite“ emerge sempre più convinta nella gente la delusione per la politica. Molti giovani si tengono alla larga dalle questioni politiche, ritenendo che i politici siano il cancro della società. La forza seducente ma anche malinconica dell’antipolitica agita i sogni collettivi di chi ha visto crollare, sotto il peso dei privilegi e dei vizi dei politici, il castello di falsità e menzogne costruito a dovere dagli affabulatori della politica. La falsa politica della parola prevale sull’interlocutore, copre i propri individuali interessi facendoli apparire come interessi di tutti. Il maestro sapiente della vera antipolitica e della falsa politica è stato Silvio Berlusconi. L’ascesa, la caduta e la rinascita di questo pavido imprenditore lombardo che ha costruito dapprima il suo potere con l’aiuto del socialista Bettino Craxi, successivamente adoperando il potere concessogli dai cittadini per sdoganare le sue imprese facendone il regno della cuccagna, sono gli ingredienti della peggiore minestra che la giovane repubblica italiana abbia mangiato negli ultimi vent’anni. Berlusconi è sempre lì, circondato dai suoi nemici. Ha dimostrato che il suo partito non esiste e diventa una macchina da guerra solo quando il padre-padrone decide di spingere l’interruttore del comando. L’irrealtà dell’attuale scenario politico include un sonnacchioso Mario Monti, senatore a vita e tecnico di professione, che, non pago di aver conosciuto la fama internazionale nell’anno in cui ha presieduto il governo italiano, rinuncia alla poltrona di presidente della Repubblica per creare un partitino identico a tutti i partiti che sono nati in Italia, motivando la sua scelta come “rivoluzionaria“. Il partito di Monti si traveste di purezza ed efficienza, benché sotto la maschera si trovino la facce di Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini. La novità delle novità del partito di Monti è dunque vecchia come il cucco. Dove sono i partiti che potrebbero garantire un vero rinnovamento politico in Italia? Dove sono gli elementi sani della società civile che potrebbero sventare l’attacco al cuore della nazione dell’antipolitica (Beppe Grillo e il suo movimento 5 stelle, Giannini e Casa Pound sono i veri maestri dell’ipocrisia e della propaganda dell’antipolitica, pur accettando di voler far parte del meccanismo elettorale attuale, emblema della politica)? Dove sono gli individui che vogliano procedere nella direzione del pensiero sovversivo, ma onesto, disinteressato, partecipe, dello scarto culturale, del coraggio intellettuale di portare anche sentimenti e amore in questa afflitta politica? Se la politica finora ha fatto ingrassare gli esponenti della casta, ora è il momento di metterla a dieta. Ci servono uomini che sappiano coltivare le passioni collettive. Non esiste più il politico, ma la politica. La politica è la società di tutti. Non esiste più il pensiero individuale, ma la sapienza del ragionamento comune. La sveglia è stata attivata: la rivoluzione civile è alle porte. Invito chiunque a non barattare la propria «ragione» con le bugiarde promesse dell’opinione televisiva e del potere.

Abbiamo bisogno della rivoluzione civile

Insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: cultura e lavoro

Giuseppe Di Vittorio : cultura e lavoro

Le generazioni moderne sanno poco o nulla di Giuseppe Di Vittorio, certamente una delle personalità più ricche e affascinanti espresse dal movimento sindacale italiano. Vien da chiedersi fino a che punto la sinistra italiana si sia realmente resa conto della crisi di una vecchia cultura politica e dei suoi aspetti più sconcertanti, come la fatale subalternità corporativa delle lotte sociali, il primato del partito, l’impossibilità per il sindacato di esprimersi come soggetto politico. Di Vittorio con la sua concezione dell’autonomia del sindacato, del sindacato come soggetto politico, ha saputo indicare una prospettiva riformatrice in cui proposta e iniziativa di massa erano unite da un nesso inscindibile, capace di vagliare la validità e la coerenza di ogni singola scelta politica in un processo democratico che sfuggisse alle insidie del trasformismo, del leaderismo e del consenso passivo verso i “capi”. Di Vittorio ha il merito storico di avere avviato la rottura delle liturgie del leninismo, anche grazie a un’acuta percezione della complessità del processo sociale, che spingeva il sindacalismo confederale in una dimensione politica

“Io non sono, non ho mai preteso, né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura. Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana… La cultura non soltanto libera queste masse dai pregiudizi che derivano dall’ignoranza, dai limiti che questa pone all’orizzonte degli uomini: la cultura è anche uno strumento per andare avanti e far andare avanti, progredire e innalzare tutta la società nazionale…

Io sono, in un certo senso, un evaso da quel mondo dove ancora imperano in larga misura l’ignoranza, la superstizione, i pregiudizi, gli apriorismi dogmatici che derivano da questa ignoranza. Io lo conosco quel mondo, profondamente. Ci sono vissuto e so quanto siano grandi gli sforzi che occorrono per tentare di uscirne. Ma in quel mondo, dietro quel muro, vi sono ancora milioni di italiani, milioni di fratelli nostri. Tutte le iniziative, tutte le forme di organizzazione, tutti i tentativi debbono essere fatti per accorrere in aiuto di questi nostri fratelli, per aiutarli a liberarsi da questa ignoranza, perché anch’essi possano provare a sentire le gioie e i tormenti dell’accesso al sapere. Dobbiamo andare fra quelle masse di nostri fratelli, chiamarle, stimolarle alla vita nuova, al sapere, al conoscere, a vedere alto e lontano; dobbiamo andare come un trattore potente su un terreno incolto da secoli per fecondarlo e trarlo a coltura, a vita, a bene della società…”

 Stralcio dal discorso al II congresso della cultura popolare, Bologna 11 gennaio 1953

 

LA DONNA E LA CULTURA
Lo abbiamo sentito parecchie volte: “L’inferiorità delle donne è dimostrata dal fatto che mai scoperto nulla, nono sono mai nati dei Leonardo da Vinci e dei Fermi tra le donne.” Anzi, c’è chi lo dice ancora oggi. Ebbene sì è vero, salvo rarissime eccezioni (ad esempio Marie Curie, Rita Levi Montalcini), nel corso dei secoli non ci sono state molte donne-genio che abbiano inventato o scoperto qualcosa di eccezionale. E come potevano se la loro destinazione “naturale” era fare figli e occuparsi della casa? La cultura, quella che precede ogni possibilità di emergere in campo culturale, non era estesa alle donne bensì ai soli uomini e neppure a tutti. Gli schiavi, ad esempio, non avevano il diritto, e, infatti, neppure tra loro è nata una figura culturalmente importante. Se spostiamo la nostra attenzione su un altro campo, quello sportivo ad esempio, vediamo come le nazioni con un maggior numero di medaglie, alle Olimpiadi, sono quelle che hanno una diffusa pratica sportiva e sin dalla più tenera età. Dal momento in cui le scuole vennero aperte anche alle donne e la cultura divenne un fatto accessibile, sia ai maschi che alle femmine, cominciarono ad emergere alcune importanti figure femminili. Ma questo diritto di parità in campo scolastico è alquanto recente e non possiamo pretendere che se ne vedono i frutti in breve tempo. La stessa educazione che i maschi ricevono, li avvia verso una maggiore qualificazione culturale, mentre permangono ancora, verso le femmine, alcuni  pregiudizi che le scoraggiano. Se è vero che entrambi, maschi e femmine, hanno raggiunto parità di diritti, poiché nessuna legge italiana pone divieto alle femmine nell’affermazione professionale, in realtà solo pochissime donne raggiungono traguardi professionali di prestigio. E, cosa ben più grave, sono ben poche le donne che detengono posti importanti nella vita politica o economica della nazione. La stessa qualificazione professionale tra le operaie è nettamente inferiore a quella dell’uomo, cosicché tocca ad esse occupare quei posti meno qualificanti e meno retribuiti.
Sono questi i frutti di una secolare posizione d’inferiorità della donna? O vi è da parte delle femmine stesse remora profonda ad impegnarsi culturalmente e professionalmente? Probabilmente entrambe le cose. Si registrano casi di donne che, giunte all’apice del successo, mollano tutto e ritornano a dedicarsi al vecchio ruolo di madre e di moglie ma sempre per libera scelta.

Il tempo, le nuove tecnologie e le invenzioni non sono serviti a migliorare le condizioni e l’immagine della donna, nella maggior parte del globo. Le donne sono infelici, insoddisfatte, confuse, maltrattate, discriminate ed emarginate; vivono nella paura, tra violenze ed abusi all’interno di mura “sicure e silenziose”: nelle loro case, nei luoghi di lavoro da parte di familiari o amici. Molti pensano che oggi la donna debba essere quella della TV, della pubblicità, ma allora la schiavitù delle donne non è finita. Il passato ci “regala” donne rinchiuse in case, mute e sofferenti nella loro solitudine e indifferenza da parte della società maschile e oggi le ritroviamo schiave di un’identità che non appartiene loro: molte di loro, infatti, hanno rafforzato involontariamente il maschilismo. La donna è apertura all’accoglienza, entusiasmo per l’amicizia, tolleranza del dolore, costanza negli impegni, capacità di scelte forti e definitive, eccezionalità di intuito. Peccato che la mentalità corrente non sappia leggere tutta questa ricchezza e si fermi ad elencare piuttosto i difetti e i cedimenti. La donna è molto diversa da come viene presentata dalla pubblicità e dai mass-media. È necessario allora che l’uomo e le donne riscoprano le loro radici, i loro ruoli, le loro capacità per poi collaborare reciprocamente per spezzare le catena della violenza e creare quella del rispetto e della dignità. Forse solo allora la donna potrà dire di essere più felice.

LAVORO

‘’L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro…’’; questa, che è una delle più celebri frasi della nostra costituzione, esprime tutto il peso che il sociale e il lavoro hanno nella suddetta Carta; apporto che le fu conferito da una delle personalità più forti e importanti del novecento italiano: Giuseppe Di Vittorio.

Art.3.  “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

Art,37. “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e stesa parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni del lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”

Art.51. “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.”

 

IL LAVORO È UN’EMERGENZA DEMOCRATICA

L’intervista a Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, è stata pubblicata dal quotidiano, “Il Tirreno”.

Rabbia, esasperazione, assenza di prospettive. Con qualche ministro che di fronte a vertenze come l’Alcoa allarga le braccia e dice: Non c’è più niente da fare. “Il sindacato ha reagito, lottato ma dopo quattro anni di crisi tremenda, in primo luogo occupazionale, servono risultati”, commenta Fulvio Fammoni, sino a pochi mesi fa membro della segreteria nazionale della CGIL e ora preidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
Rigira tra le mani il rapporto sull’occupazione appena sfornato dall’Ires, l’ufficio studi della confederazione, che disegna un’Italia in ginocchio con 4 miliardi e mezzo di cittadini dentro l’area della “sofferenza occupazionale”.

Che cosa significa?

“Che ai due milioni e settecentomila disoccupati censiti dall’Istat bisogna aggiungere un milione e settecentomila cittadini definiti scoraggiati e cassa integrati. Questi dati sono il frutto di scelte antiche e recenti”.

Quali scelte sbagliate?

“E’ evidente che il meccanismo scelto per ridurre il deficit ha presentato il conto al lavoro e ai lavoratori.”

Monti dice che ha salvato l’Italia dal baratro.

“Per far tornare i conti ha però operato una politica di tagli al bilancio che si sono scaricati sull’economia reale. Le scelte del governo hanno avuto un effetto depressivo sull’economia e si sono scaricate sui lavoratori.
I dati sull’occupazione sono inoppugnabili.”

L’Italia va peggio degli altri?

“Peggio rispetto al tasso di disoccupazione europeo. Inoltre un terzo dei nuovi disoccupati nell’Ue sono italiani. Il governo non sembra reagire a quest’emergenza, l’Italia scende sempre più in basso”.

Le riforme fatte non funzionano?

“Far pagare tutto al lavoro e scaricare la crisi sui lavoratori non solo ha effetto depressivo ma si ripercuote sui consumi e la produzione. Che cosa fa quell’area enorme di disoccupati, inoccupati, scoraggiati e cassa integrati? Che cosa può consumare? Noi siamo un Paese manifatturiero che utilizza il 70% del suo prodotto nel mercato interno. Chi compra in queste condizioni di perdita di lavoro?”

Eppure la riforma Fornero intendeva togliere lacci, liberare il lavoro…

“E invece la disoccupazione giovanile non è mai stata così devastante. Fornero e il governo avevano promesso che con la riforma sarebbe cambiato il sistema di vita degli italiani. Non so se gli italiani siano contenti di come stanno vivendo”.

Che cosa fanno invece le imprese?

“Di fronte alla crisi operano comprimendo i costi del lavoro: un lavoro meno pagato, pensano sia meglio. Sono miopi, perché in Italia abbiamo un enorme addensamento di qualifiche medio basse che, quando la crisi sarà attenuata, faranno fatica a ricollocarsi. E con la crisi c’è stata una compressione dei diritti, una maggiore ricattabilità”.

Monti dice che le tasse non può abbassarle sino al pareggio di bilancio.

“Un grave errore. Oggi intervenire sul fisco non solo è una questione di giustizia ma anche un elemento produttivo di cresita. Il pareggio di bilancio con il Pil in calo o stagnante non potrà essere conseguito.”

Il governo promette crescita…

“Parole, piani fumosi e dilatati nel tempo. C’è bisogno di lavoro, subito. E’ un’emergenza democratica”.

Insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: cultura e lavoro

Democrazia e partecipazione

Democrazia e partecipazione. Sarebbe meglio dire: la democrazia è partecipazione?

I rapporti tra democrazia e partecipazione costituiscono il capitolo più controverso della scienza politica. Con la nascita delle società complesse della modernità questo modello di
democrazia si è evoluto verso nuove forme di democrazia rappresentativa ove il governo viene esercitato in nome dei cittadini, piuttosto che dai cittadini. Si introduce così una separazione tra governanti e governati che, in presenza dello sviluppo di un capitalismo di consumo che sottrae tempo e motivazione alla partecipazione politica, ha portato ad un impoverimento della stessa concezione di democrazia.

La conseguente “apatia” dei cittadini nei confronti della partecipazione politica viene non solo compresa ma in un certo senso legittimata.

Come si può realizzare una maggiore democratizzazione dei processi decisionali della politica allargando gli spazi per un coinvolgimento dei cittadini?

La democrazia diretta

I vantaggi della democrazia diretta:

I.) È l’unica forma di democrazia «pura». Si assicura che la gente rispetti la legge, perché molti possono rispettarla in quanto le approvano personalmente. La loro “volontà generale” diventa legge. Non c’è un abisso tra il governo e il popolo.

II.) Lo sviluppo personale; la democrazia diretta porta a una società colta. I cittadini sono informati e aggiornati così come molti sono invitati a prendere parte alla politica per capire come funziona la società o addirittura come dovrebbe funzionare.

III.) La democrazia diretta non consente alle persone di mettere al primo posto la loro fede perché i politici eletti non possano distorcere l’opinione pubblica.

IV) Un legittimo governo, la democrazia diretta assicura che il governo è stabile e il 100% è legittimo perché i cittadini sono responsabili delle decisioni che prendono e non si può incolpare nessun altro.

Inconvenienti di democrazia diretta:

I.) La democrazia diretta è incredibilmente impraticabile nel mondo moderno. Questa forma di democrazia richiede a tutti i cittadini si impegnano in politica e partecipino al processo decisionale (in base all’idea di uguaglianza politica). Tutti i cittadini devono essere in grado di incontrarsi in un unico luogo per esprimere la loro opinione. Questo è impossibile per l’intera popolazione.

II.) Anche la democrazia diretta implica che la politica è l’unico lavoro per i cittadini, che non si può pretendere di avere una carriera o di una vita personale, i cittadini non sarebbero in grado di svolgere qualsiasi altra attività.

La Democrazia rappresentativa

Caratteristiche della democrazia rappresentativa:

I.) La partecipazione popolare è indiretta: i cittadini scelgono chi prenderà le decisioni attraverso il voto elettorale.

II.) La partecipazione popolare è limitata come l’atto di votare è limitato. Si vota infatti ogni quattro-cinque anni.

III) La partecipazione popolare è mediata, le persone sono legate al governo attraverso varie istituzioni.

I vantaggi della democrazia rappresentativa:

I.) È una democrazia pratica. La democrazia rappresentativa è l’unica forma di democrazia che è effettivamente possibile, nel mondo moderno; la partecipazione popolare è breve e limitata.

II.) Si forma un governo di esperti. La democrazia rappresentativa prende decisioni attraverso i politici di professione; queste persone sono generalmente più istruite e con maggiore esperienza della maggior parte del popolo. Pertanto essi sono in grado di governare in base alla loro conoscenza che possiedono per l’interesse nazionale.

III.) La democrazia rappresentativa prevede la mediazione tra i cittadini e il governo. I cittadini comuni sono liberi di andare avanti con la loro vita poiché sono sollevati dal peso del processo decisionale, che consente a molti cittadini di avere una carriera e una vita sociale in quanto solo chi deve governare può decidere.

IV.) Si crea stabilità politica. La democrazia rappresentativa mantiene la stabilità in quanto il popolo è distanziato dalla politica, più è coinvolto più si appassiona e s’impegna, difficilmente accetta compromessi. La stabilità politica è mantenuta in quanto i cittadini dello Stato sono propensi ad accettare compromessi.

Democrazia rappresentativa

Inconvenienti di democrazia rappresentativa:

I.) La democrazia rappresentativa, in teoria, è una formalità. Questo perché l’atto del voto è quando il governo decide le elezioni. La gente in teoria non è responsabile di alcun controllo sul governo tra le elezioni, determinando della democrazia rappresentativa un insuccesso.

II.) C’è stata la crescente preoccupazione di come i politici rappresentano il popolo, sia attraverso la delega del mandato, o per rappresentazione descrittiva. Molta gente non riesce a farsi rappresentare da coloro che sostengono di rappresentarli.

La democrazia liberale

Una democrazia liberale è una forma di democrazia rappresentativa, quindi indiretta. Il diritto di reggere e governare si ottiene attraverso il successo elettorale sulla base di eguaglianza politica (una persona, un voto). Essa combina l’obiettivo liberale di governo limitato con un impegno per la democrazia e la partecipazione popolare.

In una democrazia liberale, le condizioni devono essere soddisfatte:

– Le elezioni devono rispettare il principio del suffragio universale e devono essere libere ed eque.

– La libertà civile e dei diritti individuali sono garantiti.

– Il governo deve operare in un quadro giuridico, costituzionale.

– Un’economia capitalista o privata.

Una democrazia liberale tenta di bilanciare il bisogno di democrazia con le libertà individuali e i diritti.

La democrazia liberale

Ci sono due tipi principali di democrazia liberale:

I.) C’è democrazia costituzionale quando il governo opera nell’ambito di chiari orientamenti costituzionali garantisce la tutela dei diritti individuali e delle minoranze. La democrazia costituzionale è associata con i paesi che hanno una costituzione codificata, tipo Stati Uniti, Francia, Italia e Germania.

II.) Non vi è democrazia maggioritaria in cui gli interessi di maggioranza hanno la precedenza sulle minoranze. Questa regola della maggioranza sottolinea gli interessi collettivi della società, piuttosto che gli interessi individuali.

La crisi della partecipazione.

A causa della crescente apatia degli elettori, l’Italia soffre di una crisi di partecipazione.

Nelle ultime elezioni regionali siciliane, meno della metà degli elettori ha votato, e il partito più votato è stato il Movimento 5 stelle. Gli iscritti dei partiti politici tradizionali sono diminuiti nel corso degli anni.

La lealtà a un partito è diminuita. Molte persone non si identificano con un partito o con l’insieme dei valori rappresentati da esso. Questo porta a molti “elettori fluttuanti”.

Tuttavia l’attivismo è aumentato, negando l’idea di una crisi di partecipazione. Il problema è legato alla disillusione della politica. Tuttavia l’affluenza alle urne è di vitale importanza per la salute di una democrazia rappresentativa.

Una crisi della democrazia?

Ci sono tre fattori principali che potrebbero spiegare l’affluenza in calo in tempo di elezioni.

Si potrebbe sostenere che la società, in generale, è diventata più materialista alla luce del consumismo attuale.

I media hanno causato enormi problemi di fiducia al popolo minando i valori per la politica. I media si sono allontanati da un’analisi politica seria spostando l’attenzione della gente sugli scandali di diversi politici, anziché approfondire i temi sociali.

Da parte loro, i politici non hanno fatto nulla per migliorare e recuperare la fiducia del popolo nella politica.

I politici sembrano preoccuparsi solo di essere eletti, tralasciando i principi e i valori morali.

C’è stata una crescita di portavoce che distorcono la verità per fornire risposte favorevole, al fine di ottenere il sostegno. La politica è diventata una questione di stile piuttosto che di sostanza.

I partiti hanno preso le distanze dalle ideologie che erano le loro radici.

Rafforzare la democrazia

Si attua mediante un ampliamento alla diretta partecipazione dei cittadini mediante un uso più ampio di referendum. Un referendum è un voto popolare attraverso il quale l’elettorato esprime il suo punto di vista su una politica particolare. Essi sono utilizzati per informare il governo delle diverse opinioni del popolo. I referendum sono un dispositivo di democrazia diretta.

Per i referendum

Il referendum fornire solo un’opinione pubblica in un determinato momento. I referendum promuovono l’educazione politica. Agiscono come uno strumento per ampliare la partecipazione, scatenando il dibattito su questioni particolari, che portano all’elettorato informazione ed educazione.

Rafforzare la democrazia

Obbligatorietà del voto elettorale. La crisi di partecipazione potrebbe essere risolta con l’introduzione di voto obbligatorio?

Per il voto obbligatorio

La nozione del voto obbligatorio va contro l’idea di democrazia, è una violazione della libertà individuale. Le persone possono scegliere di non votare in quanto potrebbero essere demotivati dalla mancanza di scelta tra i partiti e il sistema politico attuale.

La Democrazia digitale. La causa della crisi è la partecipazione con l’atto fisico di andare a votare. Molti di noi sono legati ai posti di lavoro, alle famiglie e alla vita sociale e non trovano il tempo per votare. Il voto diventa essenzialmente un peso. Molti chiedono una moderna forma di democrazia. Forse potremmo integrare la democrazia con l’era digitale, proiezione interattiva, e-mail, ecc.

LA SVOLTA

Per una democrazia digitale

La democrazia digitale consente una più facile partecipazione. La democrazia elettronica consentirebbe agli elettori di esprimere il proprio punto di vista con facilità senza avere una distrazione importante nella loro vita quotidiana, con un effetto positivo sulla partecipazione. La crisi della democrazia può essere spiegata come l’impossibilità della politica attuale a non essersi modernizzata. I cittadini hanno la possibilità di partecipare alle diverse forme di democrazia in maniera più diretta.

La democrazia digitale è relativamente facile da organizzare, altre forme di democrazia come il referendum richiedono molto tempo, risorse e costi maggiori.

La democrazia digitale non rappresenta una minaccia per l’”integrità” della democrazia. I diritti dei cittadini sono maggiormente tutelati e visibili a tutti.
La democrazia digitale permette al politico e ai partiti di entrare in contatto con i cittadini attraverso la Rete, cioè internet. L’uso di blog, filmati da commentare, newsletter ed email permette al politico di avere un contatto diretto con elettori e oppositori. Il politico di oggi che non sa e non vuole utilizzare questi strumenti di comunicazione dovrebbe farsi da parte. E’ auspicabile una maggiore diffusione di questi mezzi nei prossimi anni. Il cittadino pretende una maggiore partecipazione alla politica e la rete rappresenta lo strumento per essere aggoirnato delle attività del politico e per rimanere in comunicazione con questi. E’ auspicabile che il politico risponda all’email dei cittadini, altrimenti in mezzo di comunicazione diretto, come internet, può ritorcersi contro. E’ altresì auspicabile che non solo le più giovani generazioni ma anche le persone più mature imparino a comunicare tra di loro e con i politici attraverso la rete.

Come si rafforza la democrazia?

Riduzione dell’età per il voto. Oggi i giovani sono molto insoddisfatti a causa della stampa scandalistica che li definisce “giovani delinquenti” o “bamboccioni”. Abbassare l’età di voto migliorerà la maturità nei giovani. Anche l’età della maggioranza è incoerente. A 16 anni si è in grado fare le stesse cose del diciottenne. Con la crescita di una serie di organizzazioni giovanili democratiche, si potrà abbassare l’età di voto.

Abbassare l’età per votare

Il politico sarà costretto ad affrontare  gli interessi e le problematiche dei giovani, come la droga, l’alcol, la scuola, lo sport, la cultura, il divertimento e tutti gli interessi giovanili che sono sempre più ignorati portando a una generazione dimenticata.

È inammissibile dire che i giovani di 16 anni sono immaturi e ignoranti. Non si sembra che attualmente sia negato il diritto di voto agli adulti ignoranti.

Abbassando l’età per votare i giovani rafforzano i loro interessi nella politica. Questo porta a un più forte impegno politico come un’altra porzione della società che partecipa alla politica.

La partecipazione rafforza la democrazia.

Democrazia e partecipazione

La cultura secondo Nichi Vendola

La fabbrica della creatività

Ascoltando Go-Do di Jonsi, 2010

Leggendo Massa e potere di Elias Canetti, Adelphi, 1981

 Vedendo Nashville di Robert Altman, 1975

 “La gente non mangia cultura.

Giulio Tremonti

8.10.2010

Nel Paese che spende assai meno dell’1% del proprio budget in cultura, abbiamo dovuto sopportare anche le battute odiose del tremontismo coatto. Sedici anni d’ignoranza pervasa dall’idea che artisti e produttori di cultura siano dei parassiti scansafatiche, inetti al lavoro vero. E che il dibattito politico possa farsi a suon di tabelline e diti medi.

Un ciclo che sta chiudendosi con il più drammatico taglio al Fondo Unico dello Spettacolo della storia e con la totale assenza di idee per il rilancio di patrimonio artistico e attività culturali. Il crollo di una delle gallerie di Pompei ne è la metafora più atroce.

L’investimento pubblico in cultura e necessario perché il mercato non investe dove non ci sono margini immediati. Lo dobbiamo a noi stessi e alle generazioni che verranno. Investire in cultura, tanto più nei momenti di crisi economica, salva il Paese dallo sfarinamento morale e dalla deriva economica, perché cultura significa innovazione e creatività. Innovare significa allargare la base produttiva, creando ricchezza da redistribuire.

La destra italiana non capisce questo processo.

Perché non ha compreso che tutto sta cambiando nel mondo.

Avere vent’anni oggi, infatti, non significa solo essere certi che flessibilità e precarietà siano sinonimi. Significa anche raggiungere mete e persone lontane con voli a basso costo, avere libero accesso a fonti di in/formazione multiple e plurali, conoscere cose che, gli esseri umani cresciuti anche solo cinquanta anni fa, non potevano nemmeno immaginare possibili. È un mondo nuovo, innervato di conoscenza e di competenze diffuse, liberamente accessibili e condivisibili.

A patto che, per chiunque, sia consentito studiare, approfondire, conoscere e avere accesso alle nuove tecnologie della comunicazione orizzontale, basate sul web. A patto, cioè, che il tasso d’ingiustizia del futuro, non si misuri tra chi sa usare una macchina e chi ne subisce i suoi usi distorti. Tra chi ha accesso al sapere – e al potere – e chi rimane impigliato nel bozzolo disperante della propria condizione sociale di partenza.

Per questo pensiamo che vada immediatamente innervata l’intera penisola di fibra ottica, per garantire l’accesso al web veloce e a servizi pubblici comuni. Un bene prezioso, la rete internet, perché veicola contenuti e facilita la comunicazione tra lontani e diversi.

Comunicare e trasferire contenuti. Due lemmi, se si pensa bene, che solo apparentemente sembrano in contrasto fra loro. Sono, infatti, uniti dal formato e veicolati dall’industria culturale.

Conosciamo l’etica hacker e amiamo compulsivamente l’i-phone o il blackberry. E invidiamo il nerd compagno di viaggio in treno o aereo che usa con disarmante disinvoltura palmari e touch screen, scivolando virtuosamente sugli schermi del nostro desiderio consumistico. E ci innervosiamo, figli incantati e saettanti, nel vedere i nostri nonni e genitori alle prese con le penne usb o le connessioni adsl.

E allora occorre capire, di questa grande rivoluzione quotidiana e di questa guerra permanente tra formati e offerte premium, cosa dobbiamo salvare e cosa dobbiamo sconfiggere, per consentire al maggior numero di cittadini d’aver accesso ai contenuti e diritto di parola, senza censure né cesure della propria identità. La parola scritta arriva ovunque e non trasporta soltanto l’informazione, che invece può essere nascosta, fermata, diffamata, ma trasferisce qualcosa che solo gli occhi del lettore possono smentire e confermare. Questa potenza non puoi fermarla se non fermando la mano di chi la scrive. La potenza della parola spaventa. Per il governo italiano è più temibile Saviano che falso in bilancio.

La libertà di stampa, ripristinata dopo la caduta del regime fascista, è un baluardo fondamentale della nostra Costituzione. È un principio su cui deve tornare a discutere l’intera classe politica. Ma questo atteso dibattito è stato rimandato per troppo tempo. Oggi occorre ripensare all’intera strutturazione del panorama mediatico, ostaggio degli interessi di una sola persona su cui, peraltro, grava il conflitto di interessi più grande della storia italiana, del duopolio Rai-Mediaset e dell’occupazione partitica della tv di Stato.

Contemporaneamente, crediamo sia possibile abbattere i muri innalzati dai potenti e dai governi a protezione dello status quo. C’è un Italia migliore che non si vede ma che vive nella realtà di internet e nel luogo possibile della Rete in cui un numero indefinito di persone dialogano, si scambiano esperienze facilitando la conoscenza e la naturale predisposizione dell’essere umano all’empatia.

La Rete consente l’estensione delle capacità delle donne e degli uomini e preme per l’attuazione di forme di democrazia partecipata, in cui ognuno è chiamato al proprio compito di cittadino del mondo. Internet rimpicciolisce il pianeta e allarga il dialogo permettendoci di osservare ciò che succede in ogni parte del mondo. Pensiamo al ruolo della Rete e delle sue applicazioni nella vicenda delle scorse elezioni politiche in Iran. Anche le grandi testate e i telegiornali utilizzavano immagini e video amatoriali estratti dalla rete. Pensiamo a come tutto il mondo abbia avuto la possibilità di osservare e guardare ciò che altrimenti sarebbe stato impossibile per via della censura imposta dal governo iraniano. E pensiamo a Neda, divenuta simbolo di quella lotta e di quelle rivendicazioni proprio perché la sua morte ha bucato i limiti e i confini del suo paese, entrando nel nostro privato, riannodando i fili di un’umanità lacerata. La Rete costruisce pace perché unisce, perché narra porzioni di racconto che altrimenti non avrebbero voce.

L’altro spunto di riflessione è l’ostacolo alla libera circolazione della musica che minaccia lo sviluppo della produzione discografica e multimediale. Non è stata la tecnologia informatica a uccidere la musica e, insieme, a farla risorgere grazie ad i-tunes? E cosa aspettiamo ad abbassare l’iva sulla musica, introducendo su tutta la filiera dei prodotti multimediali e culturali una tassa di scopo capace di rispettare i vincoli posti dalla Ue?

Noi pensiamo vada riformata la gestione dei diritti di proprietà intellettuale a partire dalla Siae. E che vadano introdotte le licenze di creative commons che, insieme all’uso sapiente della leva fiscale che va necessariamente abbassata sui prodotti culturali e alzata su quelli di mero intrattenimento e consumo di massa, sono la migliore risposta contro la pirateria, per sottrarre al controllo di aziende globali il controllo sulle idee di tutti.

 

Perché le idee sono il lievito del tempo nuovo, quello che stiamo gia vivendo

 

Un mondo dalle mille possibilità. Di mille futuri possibili, di mille nuovi lavori di concetto e di occasioni di crescita economica immateriale. Per questa ragione riteniamo opportuno che, nei tavoli ministeriali del Tesoro, si calcoli, oltre al Pil, anche il Pns: il “Prodotto Nazionale Sapere. E ancora, per riflettere sulle opportunità di questo mondo e sulle sue insidie, si pensi alla moltiplicazione dei canali televisivi, indotta dal change over al digitale terrestre. Oppure al diffondersi pervasivo dei tablet e degli smart phone che vivono di app(licazioni). Agli ebook. O, ancora, alla diffusione di contenuti cross mediali via web.

Sono infinite, a pensarci bene, le possibilità di investire per i privati nelle multiformi applicazioni delle nuove tecnologie e della produzione culturale. Perché anche le imprese hanno compreso che l’unico modo per farcela è dare all’Italia una vocazione “glocale”, che faccia leva sulla ricchezza del patrimonio storico, orografico, architettonico, artistico, naturale, trasformandoli in fattore di conoscenza, competenza e promozione della propria unicità nel mondo.

È tempo di immettere, nel circuito produttivo dei contenuti, un sapere finalmente critico, una leva di giovani talenti che abbia già sorbito e digerito le maria defilippi e i grandi fratelli, come cascami di un tempo andato, morto, sepolto. Superato come la tv generalista del pleistocene, dato che la tv del prossimo futuro è quella delle nicchie e della multi piattaforma.

E la politica, le istituzioni, cosa possono fare per sviluppare queste occasioni, garantendo profitti per le imprese e buoni salari per i lavoratori, arricchimento culturale per i cittadini, rispetto per l’estetica, democrazia nell’accesso alle fonti e libertà creativa agli sviluppatori?

La politica deve, innanzitutto, attenuare tutti i fumi della distrazione di massa, stimolando la creatività e non la piatta comunicazione. Moltiplicando i luoghi di partecipazione collettiva al lavoro creativo, tramite il coworking; offrendo possibilità tramite il microcredito e l’abbassamento delle soglie di accesso al credito bancario. Occorre fare una cosa grande e semplice: creare il Ministero della produzione creativa e accorparvi tutte le deleghe oggi sperse nei mille rivoli di altrettanti ministeri.

Un Ministero della produzione creativa significa uscire dalla trappola della sola conservazione dei beni culturali ai fini della promozione turistica, e introdurre l’idea d’industria creativa. L’insieme, cioè, di originalità, etica, cultura, estetica e identità. La capacita di custodire e, insieme, innovare. Perché la cultura e testimonianza di civiltà. Le industrie culturali e creative italiane dispongono di un potenziale in gran parte inutilizzato di crescita e di occupazione.

Il recente libro verde descrive un’industria della creatività europea capace di contribuire con il 2,6% al Pil della Ue a 27 paesi, occupando circa 6 milioni di persone. Se il mercato del lavoro in Europa registra una contrazione tra il 2002 e il 2004, negli stessi anni, l’occupazione nel settore culturale è cresciuta di un 1,85%. Secondo il Creative Economy Report del 2008 l’industria creativa rimane uno dei principali settori del commercio mondiale in termini di crescita. La bilancia commerciale dell’Ue a 27 paesi, per esempio, nei principali settori legati alla creatività ha registrato nel 2007 un surplus di 30 miliardi di euro. L’industria creativa è pertanto un settore caratterizzato da notevoli prospettive di crescita nel lungo termine. Questo potenziale riguarda tutti i paesi e le regioni del mondo. Ma noi siamo italiani, abbiamo in più la ricchezza di un territorio unico e inimitabile.

Creatività e innovazione sono i soli fattori in grado di consentire a un sistema economico di reggere le sfide della competizione globale. Con l’innovazione si diffondono idee che migliorano l’efficienza dei sistemi produttivi e la funzionalità dei prodotti. Con la creatività si guadagna in bellezza, perché l’atto creativo e il più appagante dei desideri realizzati. E si passa “dal made in Italy allo styled in Italy”.

Ma cosa intendiamo esattamente per industria creativa?

Oltre ai settori tradizionali delle arti (arti dello spettacolo, arti visive, patrimonio culturale), l’industria creativa comprende anche i film, i dvd e i video, la televisione e la radio, i videogiochi, i nuovi media, la musica, i libri e la stampa, il design, la moda, la pubblicità e la comunicazione.

Una riforma sistemica e nuovi investimenti pubblici sono decisivi per restituire all’Italia una visione ambiziosa: occorre, infatti, attenuare l’invasione di prodotti culturali stranieri e favorire la produzione di un’identità multiculturale locale che aiuti anche l’integrazione dei popoli migranti che ci attraversano. Per farlo è necessario parlare un linguaggio dei segni universale e tecnologicamente avanzato aiutando le imprese a rafforzarsi e unirsi in distretti culturali, favorendo la nascita di scene artistiche territoriali, stimolando la mobilità degli artisti e aiutandoli a vivere in residenze artistiche permanenti che fungano da aggregatori di talenti e di pubblico e da incubatori della diversità culturale. Occorre stimolare la concorrenza superando il duopolio televisivo, stimolando l’accesso alle nuove tecnologie, diffondendo la banda larga. Perché l’unico modo per far aumentare i consumi culturali – obiettivo indispensabile per la sinistra contemporanea – e aumentare la base dei suoi produttori e favorire l’accesso popolare alle arti. Molti economisti considerano i costi marginali della cultura bassissimi. E allora, riprendendo la proposta di Walter Santagata, perché non rendere gratuito l’accesso ai musei pubblici? Poi questi venderanno valore aggiunto, come gadget, ristorazione o eventi. Il nostro obiettivo politico mira ad abbattere gli ostacoli che impediscono la libera fruizione di cultura. È indispensabile promuovere l’imprenditorialità diffusa, favorire gli editori puri, la cultura d’impresa e di management allo scopo di aiutare l’emersione di nuovi pubblici per nuove imprese e nuovi contenuti. Va democratizzato l’accesso alle fonti culturali, rendendo diffuse le attività di formazione attraverso la promozione di una collaborazione più intensa, sistematica e ampia tra le arti, le istituzioni accademiche e scientifiche e le iniziative comuni pubblico-privato. L’accesso al finanziamento delle industrie culturali e creative è limitato perché numerose imprese soffrono di cronica sottocapitalizzazione e incontrano seri problemi per ottenere una giusta valutazione dei loro attivi immateriali, ad esempio i diritti d’autore. Se si pensa non solo al cinema – la più popolare delle forme di produzione artistica – è opportuno prevedere strumenti finanziari innovativi, come il capitale di rischio, il microcredito, le garanzie e altri strumenti di condivisione del rischio. Nuovi interessanti modelli finanziari, mirati in modo più specifico alle industrie culturali e creative, sono emersi. I migliori agevolano l’accesso al credito. Altri mettono in contatto investitori e imprese che necessitano di capitale di rischio per crescere, anche per mezzo di forme di finanziamento collettivo (crowdfunding).

Oggi sappiamo che, per il cinema italiano, tassa di scopo e tax credit, rifinanziamento del Fondo Unico dello Spettacolo a valere su una tassa di scopo, il Centro unico nazionale dell’audiovisivo sono la cura indispensabile. Parimenti fondamentale è la riforma radicale della Rai per impedirne la contiguità con la politica e liberarla dall’assillo della competizione con Mediaset. Perché il credito fiscale funziona se esiste un mercato dei diritti veramente libero. E allora diciamolo, una buona volta, che il mercato dei diritti cinetelevisivi va liberato dal giogo del conflitto di interessi e delle rendite di posizione e che vanno rafforzati e aiutati i produttori indipendenti. Le infrastrutture culturali e i servizi di alta tecnologia, le buone condizioni di vita e le buone possibilità d’impiego del tempo libero, il dinamismo delle comunità culturali e la forza delle industrie culturali e creative locali sono sempre più considerati i veri fattori di attrattività per imprese, talenti e pubblico. Il turismo del futuro è in questo snodo: non basta più offrire meravigliose città d’arte per attrarre i grandi flussi turistici internazionali. L’Italia deve essere un posto alla moda.

Cosa lo è più della creatività e dei giovani?

Ciò di cui avremmo bisogno e un capovolgimento completo del modo di intendere la creazione. Per Goffredo Fofi “la cultura con cui dobbiamo quotidianamente confrontarci è una specie di tranquillante o di sonnifero, che ci distrae e ci aiuta a non pensare invece che a pensare, a dimenticarci invece che a trovarci, è un consumo indifferenziato che nei propositi di chi lo propone e amministra deve servire a renderci inattivi invece che attivi. Le istituzioni della cultura e i suoi gestori si preoccupano del successo e del consenso, della superficie e dell’attualità invece che del radicamento, della lunga durata, della qualità e della possibilità di incidere in profondità nell’humus di una popolazione e di un’epoca”.

La creatività che abbiamo in mente richiede il rilancio delle politiche pubbliche e del protagonismo privato. È la creatività degli spiriti liberi e critici, incapaci di sottomettersi ad alcun potere. L’unica in grado di garantire uno sviluppo rapido e sano del Paese.

È un processo possibile, basta iniziarlo. Adesso.

Nichi Vendola

(da C’è un’Italia migliore, Fandango libri, 2011)

La cultura secondo Nichi Vendola

Il programma di Barack Obama

GUERRA E PACE

«Quattro anni fa, ho promesso di porre fine alla guerra in Iraq. L’abbiamo fatto. Ho promesso grande concentrazione nella lotta ai terroristi che ci hanno attaccato l’11/9. L’abbiamo fatto. Abbiamo smussato lo slancio dei talebani in Afghanistan, e nel 2014, la nostra più lunga guerra sarà finita. Le trame terroristiche devono essere interrotte. La crisi dell’Europa deve essere contenuta. Il nostro impegno per la sicurezza di Israele non deve vacillare, e il governo iraniano deve affrontare un mondo unito contro le sue ambizioni nucleari».

INDUSTRIA ED ECONOMIA
«Nell’industria potremo avere un milione di nuovi posti di lavoro entro la fine del 2016 ed esportazioni raddoppiate per la fine del 2014. Dopo un decennio di declino, questo paese ha creato oltre mezzo milione di posti di lavoro nella produzione negli ultimi due anni e mezzo».

TASSE E DEFICIT
«Ho tagliato le tasse a coloro che ne avevano bisogno: famiglie della classe media, piccole imprese. Non credo che un altro giro di agevolazioni fiscali per milionari porterà nuovi posti di lavoro o pagherà il nostro deficit. Mi rifiuto di chiedere agli studenti di pagare di più per il college».

ISTRUZIONE

«Si può scegliere un futuro in cui sempre più americani abbiano la possibilità di acquisire le competenze di cui hanno bisogno per competere. Non importa quanti anni e quanti soldi abbiano».

ENERGIA E SICUREZZA
«A differenza di mio avversario, non lascerò scrivere alle compagnie petrolifere il piano energetico di questo paese o mettere in pericolo le nostre coste. Offriamo un percorso migliore, un futuro in cui si continui a investire in eolico e solare e carbone pulito».

IL FUTURO
«I nostri problemi possono risolversi, le sfide possono essere lanciate. Vi guiderò lungo un cammino tortuoso, ma che conduce in un posto migliore. Non pensiamo che il governo possa risolvere tutti i nostri problemi. Ma non credo che il governo sia la fonte di tutti i nostri problemi. Nessun partito ha il monopolio della saggezza. Nessuna democrazia funziona senza compromessi».

IN AMERICA SI PUÒ
«Noi crediamo che un bambino sfuggito alla povertà da grande possa, con una borsa di studio, diventare il fondatore del prossimo Google, o lo scienziato che cura il cancro, o il presidente degli Stati Uniti. È in nostro potere di dargli questa possibilità».

GLI IMMIGRATI
«È giusto che un giovane immigrato cresciuto qui, che qui ha promesso fedeltà alla nostra bandiera non debba essere espulso dall’unico paese che abbia mai chiamato a casa».

GLI SLOGAN
«Nel 2008 dissi ”Sì, possiamo”, oggi dico ”Sì, possiamo ma ci vuole tempo”».

IL LIBRO DI FIDEL CASTRO

«Obama e l’Impero».

Il programma di Barack Obama

LA FUGA DEGLI ONESTI

LA MORTE DELL’ONESTÀ

Per una serie di ragioni, le persone non sempre rispettano la verità quando parlano. Alcuni dei motivi sono giustificabili, come le considerazioni umanitarie: ad esempio, la disinformazione circa la sorte di una famiglia nascosta durante l’occupazione nazista dell’Europa era un inganno onorevole e coraggioso.

L’onestà non è una virtù morale completamente liberata che esige una rigorosa fedeltà in ogni momento. Ci sono circostanze, in diplomazia, pericolose per la vita che a volte richiedono un allontanamento dalla verità. I politici, per esempio, faticano particolarmente a dire la verità in modo coerente. Forse questo è perché, come George Orwell osservò una volta, la funzione stessa del discorso politico è quello di nascondere, ammorbidire, o travisare le verità difficili. Orwell era chiaramente scettico. In “La politica e la lingua inglese” scrisse: “Il linguaggio politichese, con opportune variazioni di questo o quel partito, è vero per tutti i partiti politici, dai conservatori agli anarchici – esso è progettato per rendere veritiere le bugie e far sembrare l’omicidio rispettabile, e per dare l’aspetto di solidità al vento.”

Anche se in questo caso lo stesso Orwell potrebbe essere stato colpevole di esagerazione, la sua affermazione non può essere totalmente respinta. Sarebbe ingenuo (o cinico) per chiunque nel mondo di oggi restare scioccato ogni volta che un uomo politico cerca di nascondere la verità al pubblico. Per i cittadini normali, tenere il passo con la cronaca quotidiana è un processo costante di speculare su ciò che i politici intendono davvero con quello che hanno detto e quello che realmente credono. Certamente non significa prendere quello che ognuno di loro dice per oro colato.

Eppure, riconoscere che l’onestà non è uno standard assoluto richiesto per ogni circostanza della vita, e che possiamo aspettarci una certa quantità di inganno anche dalle nostre rispettabili figure pubbliche non vuol dire che la virtù dell’onestà può essere ignorata impunemente. Un intento di base per essere sinceri, insieme al presupposto che le persone possono generalmente provarci, è richiesto per tutte le operazioni che si ritengono civili.

Nessuna civiltà può tollerare una aspettativa fissa di comunicazioni disoneste senza provocare un crollo nella fiducia reciproca. Tutti i rapporti umani si fondono sulla fiducia con coloro che adottano la verità alla base delle relazioni. L’onestà costruisce e consolida un rapporto di fiducia e le violazioni di troppi all’onestà può corrodere i rapporti. Relazioni, amicizie, famiglia, lavoro, tutti soffrono ogni volta che la disonestà viene alla luce. La ragione principale per cui nessuno vuole essere conosciuto come un bugiardo è che le persone evitano i bugiardi perché non ci si può fidare di loro.

I Romani consideravano la dea Veritas  la “madre della virtù”; Confucio considerava l’onestà la fonte essenziale di amore, di comunicazione, e l’equità tra le persone, e, naturalmente, il Vecchio Testamento della Bibbia vieta la falsa testimonianza.

Ci può essere la percezione in molti settori chiave della vita contemporanea, diritto, economia, politica, tra gli altri, che l’onestà è un atteggiamento ingenuo e sciocco, un modo “perdente” di operare. Tale percezione è praticamente un mandato per una personale disonestà e una concessione alla sfiducia interpersonale.

Il nostro grave problema oggi non è semplicemente che molte persone sono abituate a dire bugie. Le persone si sono allontanate dalla verità per un motivo o per un altro. Il problema ora è che ci sembra di raggiungere un punto di ribaltamento in cui un impegno essenziale per la verità non sembra più essere assunto nella nostra società.

Quali sono i segni di questo nella società contemporanea?  Sulla carta stampata, nelle trasmissioni televisive e sui siti di notizie online, il giornalismo ha perso credibilità con gran parte del pubblico nei pregiudizi percepiti nel rappresentare i fatti. Negli affari civili, il discorso politico non è più considerato una fonte  affidabile di informazioni.  In un tale contesto, i fatti possono essere manipolati o costituiti al servizio di un interesse predeterminato, non presentati in modo preciso e poi esaminati in buona fede. Ciò è preoccupante, perché i leader impostano le loro comunicazioni in tutta la sfera pubblica.

Insegnare l’onestà non è più una priorità nelle nostre scuole.

Più preoccupante di tutti è che l’onestà non è più una priorità in molti dei contesti in cui vengono educati i giovani. Il futuro di ogni società dipende dallo sviluppo del carattere dei suoi giovani. È nei primi anni di vita e nei primi due decenni in particolare, quando le virtù fondamentali diventano parte integrante dei caratteri acquisiti. Anche se le persone possono imparare, crescere, e modificare se stessi a qualsiasi età, questo tipo di apprendimento diventa sempre più difficile in quanto le abitudini si consolidano nel tempo. L’onestà è un ottimo esempio di virtù che diventa abituale nel corso degli anni se praticata in modo coerente, e lo stesso si può dire della disonestà.

L’onestà è la virtù più strettamente legata alla missione accademica di ogni scuola. In materia di “integrità accademica”, le scuole hanno la responsabilità primaria di trasmettere agli studenti l’importanza dell’onestà come virtù pratica ed etica. Purtroppo, molte delle nostre scuole oggi mancano di tale responsabilità.

Di tutte le cose che possono lacerare profondamente il tessuto morale di una scuola, barare è tra le più dannose, perché getta in dubbio la fedeltà della scuola alla verità e alla correttezza.

Per gli educatori, cercare l’opportunità di aiutare gli studenti a imparare dai propri errori, è materiale su cui lavorare.

Eppure molti insegnanti, al fine di evitare azioni legali e di contesa con l’altro versante, guarda dall’altra parte se i loro studenti copiano le risposte degli esercizi o la traduzione delle versioni. Incredibilmente, alcuni insegnanti in realtà hanno incoraggiato gli studenti a barare.

È praticamente impossibile trovare una scuola che tratta l’integrità accademica come una questione morale. Si nota una mancanza di interesse palpabile tra docenti e personale nel discutere il significato morale di barare con gli studenti. Il problema qui è la bassa priorità di onestà nella nostra agenda per la scuola in modo specifico e all’educazione dei figli in generale.

Negli anni passati, non c’era molta esitazione nella nostra società su come utilizzare un linguaggio morale per insegnare ai bambini le virtù essenziali tra cui l’onestà. Per noi, oggi, può essere uno shock culturale sfogliare le vecchie edizioni di McGuffey Readers, usate in molte scuole americane fino alla metà del XX secolo, per vedere come facilmente gli educatori una volta impegnavano il tempo a inequivocabili lezioni di morale agli studenti. Oggi, quando barare è considerato da alcuni insegnanti una risposta scusabile per un incarico difficile, o addirittura una forma di pro-attività sociale, la nostra società rischia un futuro di intorpidimento morale provocato da un calo di onestà e di tutte le virtù che contano su di essa. Si avverte la mancanza di coltivare la virtù nei cittadini: ciò può essere una minaccia letale per qualsiasi democrazia.

William Damon

LA FUGA DEGLI ONESTI