Dalla cultura spazzatura alla cultura nella spazzatura

Dalla cultura spazzatura alla cultura nella spazzatura

NEWS_84954I ragazzi britannici sono tutti i giorni avvelenati da una “cultura spazzatura” che comprende cibo adulterato, videogiochi e un’educazione che gli impone di essere sempre in competizione l’uno con l’altro.

In una lettera aperta al Daily Telegraph 11 insegnanti, psicologi e autori di libri per ragazzi — fra cui l’acclamato scrittore Philip Pulmman e Penelope Leach, un’esperta di problemi adolescenziali — hanno lanciato un appello perché il governo agisca immediatamente per impedire che i più giovani possano morire.

Costretti “a comportarsi e vestirsi come dei mini-adulti”, i ragazzi stanno diventando sempre più depressi e presentano sempre più problemi di sviluppo fisico e crescita caratteriale precoce, dicono.

“Quando il cervello dei ragazzi è ancora in fase di sviluppo non si possono ancora comportarsi come adulti già cresciuti, e adattarsi agli effetti del rapido cambiamento tecnologico e culturale”, si dice nella lettera.

“Hanno bisogno di quello di cui gli esseri umani in fase di crescita hanno sempre avuto bisogno: di cibo vero (e non il cibo “spazzatura”), di giochi veri (e non giochi sedentari davanti ad uno schermo), di provare le prime esperienze che gli riserva il mondo in cui vivono e avere un’interazione normale con gli adulti reali che fanno parte delle loro vite”.

La lettera è stata resa pubblica da Sue Palmer, una ex preside e autrice di un libro che si intitola “Adolescenza tossica”, e dal Dottor Richard House, un professore universitario del Research Centre for Therapeutic Education alla Roehampton University di Londra.

“Lo sviluppo degli adolescenti è influenzato in maniera drastica dal mondo in cui crescono . E’ scioccante”, ha detto Palmer al Daily Telegraph.

“Il processo di crescita fisica e psicologica di un ragazzo non può essere accelerato. Deve seguire i suoi tempi biologici, non una velocità elettrica. L’adolescenza non è una corsa contro il tempo”.

Gli esperti hanno condannato il sistema educativo britannico che sta diventando sempre più un sistema in cui un adolescente è “spinto da un obiettivo” e ha lanciato un appello al governo perché riconosca che i ragazzi hanno bisogno di più tempo e spazio per crescere, esigendo con urgenza un dibattito pubblico sull’educazione degli adolescenti nel 21esimo secolo.

La premiata autrice di libri per ragazzi Michael Morpurgo ha denunciato un effetto “goccia dopo goccia dopo goccia” che sta uccidendo i giovani, che sono soggetti ad una forte pressione in ambito universitario e al bombardamento di un mercato ossessivo.

“Si sta gradualmente diffondendo come un veleno nella cultura. C’è sempre meno spazio per la lettura, per i sogni, per il teatro, per l’arte o semplicemente per giocare”, ha detto alla Bbc radio.

Dalla “cultura spazzatura” alla cultura nella spazzatura il passo è breve.

A Bari, centinaia di volumi, appartenuti ad un uomo deceduto pochi giorni prima, sono stati buttati in un cassonetto davanti ad una libreria. Ma gli amanti della lettura non si perdono d’animo e li raccolgono. Un doppio sfregio: buttare nella spazzatura (e nemmeno in quella differenziata) centinaia di libri appartenuti ad una persona, defunta pochi giorni prima, che evidentemente amava assai la lettura. E poi addirittura buttarli in un cassonetto a due passi dal maxistore Feltrinelli. È accaduto nel centro di Bari dove l’ingombrante patrimonio di volumi è stato così “smaltito”. Ma a quest’atto la gente, per lo più gli avventori della libreria, hanno risposto con un gesto d’amore verso i libri, ovvero rovistando letteralmente nei cassonetti.

Dalla cultura spazzatura alla cultura nella spazzatura

Rabbia, ribellione, rivoluzione nell’Italia di oggi

RIBELLIONE

 

Rabbia, ribellione, rivoluzione nell’Italia di oggi

L’ordine del mondo è sempre stato il risultato di varie tensioni, idealmente seguiti da accordi. Oscar Wilde sosteneva: “La disobbedienza, agli occhi di chiunque abbia letto la storia, è la virtù originaria dell’uomo. È attraverso la disobbedienza che i progressi si compiono, attraverso la disobbedienza e attraverso la ribellione».(L’anima dell’uomo sotto il socialismo, 1891). Forme di opposizione possono variare da quelle estremamente violente, come le guerre civili e le rivoluzioni, alle manifestazioni più tranquille di resistenza. La legittimazione del potere è in gioco ogni volta che un sistema politico o sociale è messo in discussione. Spesso la retorica della ribellione si basa sulla suddivisione in “noi” e “loro”. In molti casi il problema è stato risolto con successo dai negoziati, mentre in altri casi sono seguono scontri tra i due gruppi.

Gli ultimi anni hanno dimostrato che, indipendentemente da vari tentativi di evitare i conflitti, sia per gli Stati sia per le organizzazioni internazionali, l’opposizione è sempre coinvolta con i rapporti di potere che sono sfidati attraverso lo sforzo individuale o collettivo. Al giorno d’oggi, il mondo si trova ad affrontare gravi crisi e così si assiste sia a forme violente sia alla protesta non violenta. Martin Luther King ha riconosciuto l’importanza di entrambi. Anche se lui stesso ha privilegiato la resistenza non violenta, come diceva: “Una rivolta è la lingua dell’inaudito” (discorso tenuto a Birmingham, Alabama il 31 dicembre 1963).

Le varie definizioni di ribellioni e rivoluzioni sia in contesti letterari sia culturali sono elencate sinteticamente:

– Sfida alle autorità e ai funzionari
– Protesta contro i regimi e i sistemi totalitari
– Protesta individuale e sociale
– Disobbedienza civile
– Il terrorismo come strumento politico e ideologico
– ribellione (post) coloniale
– Visioni utopistiche e distopiche
– L’anarchismo come una forma di ribellione
– L’Occupy Movement
– L’anti-globalizzazione / movimento alter-global
– Il gap generazionale, i giovani nella (sub) cultura e la lotta per l’identità
– Le rivoluzioni sessuali
– Il femminismo
– I figli della rivoluzione
– La copertura mediatica della rivoluzione
– I media come strumento di rivoluzione

La disobbedienza civile è il rifiuto da parte di un gruppo di cittadini organizzati di obbedire a una legge giudicata iniqua, attuato attraverso pubbliche manifestazioni. La locuzione (civil disobedience) fu introdotta nel 19° sec., negli USA, dallo scrittore e filosofo H. D. Thoreau, imprigionato per essersi rifiutato di pagare le tasse legate alla guerra contro il Messico. La d. acquistò risonanza politica in India con il movimento di resistenza passiva proclamato su ispirazione di Gandhi dal comitato del congresso panindiano di Delhi (1921); iniziato con la salt tax protest march (marcia dall’interno alla costa per procurarsi il sale contro il monopolio britannico), ebbe fasi sempre più acute (nel 1930 fu estesa a ogni attività in rapporto col governo) e fu rilevante nel processo d’indipendenza dell’India.

Negli anni 1960 la d. ebbe diffusione negli USA a opera del movimento per i diritti civili promosso da M. L. King contro la discriminazione razziale. Anche la guerra del Vietnam portò a un vasto movimento di d. da parte dei giovani che si rifiutavano di ottemperare all’obbligo del servizio di leva.

In Italia, dopo il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare (1972), campagne di d. sono state condotte soprattutto dal Partito radicale (su temi come la liberalizzazione dell’aborto e delle droghe leggere) e dal movimento pacifista.

Oggi, la protesta individuale e sociale, come non mai, ha raggiunto elevati livelli. Si continua a vagheggiare una Politica (con la “P” maiuscola) in grado di risolvere i problemi senza chiedersi più seriamente quali siano le cause che hanno condotto alle “inevitabili” forme di protesta cui stiamo assistendo.

Basterebbe una politica con la p minuscola, purché ci fosse. Il problema invece è proprio questo: in Italia veniamo da un lungo periodo di latitanza della politica. E la politica altro non è che la capacità di scegliere, di decidere e di assumersene le responsabilità.

Le proteste e le contestazioni sono, innanzitutto, la reazione a questo vuoto o a una politica vissuta come rendita di posizione, quando non come arricchimento personale, e quindi del tutto fine a se stessa. In questa chiave le proteste, la disaffezione, i “grillismi” non vanno demonizzati né minimizzati, ma compresi nelle loro origini e cause scatenanti. Con serietà, umiltà e senza confondere cause con effetti. Perché se è vero che non si devono trasformare le vittime in carnefici, non si devono neppure scambiare i carnefici per vittime, come qualcuno invece, in modo miope e irresponsabile, ha fatto, per esempio, dopo l’attentato di piazza Montecitorio.

Ma una volta analizzati e valutati, i fenomeni di contestazione e le proteste richiedono risposte. E queste le può dare solo la politica. Piuttosto un appello forte e realista alle classi dirigenti. Se non si danno risposte alla domanda di lavoro e di redistribuzione dei redditi che cresce nella società, si rischia di innescare spirali di protesta distruttiva. Il problema è: c’è oggi una politica capace non solo di ascoltare parole come queste ma anche di tradurle in risposte? La sfida che, non solo l’Italia ma l’Europa, hanno di fronte nel prossimo futuro è proprio questa.

Rabbia, ribellione, rivoluzione nell’Italia di oggi

La finta seduzione del populista

silvio-berlusconi-profilo1Viviamo in un’epoca in cui l’immagine trionfa sulla verità, che si tratti di sport, televisione (reality) o politica. Negli anni Novanta, Silvio Berlusconi fondò il partito aziendale chiamandolo “Forza Italia”. Non aveva una piattaforma. Berlusconi era la piattaforma. L’uomo Berlusconi non era un genio, ma sembrava un genio perché le sue aziende, grazie a coperture politiche dell’epoca precedente al suo ingresso in politica, erano il prototipo dell’Italia ricca, prosperosa ed efficiente. Berlusconi è stato il populista tra i populisti. L’essenza del populismo è il trionfo individuale sull’ideologia, sulla politica, e anche sulla realtà. Il “Populista” definisce quel politico dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo che demonizza le élite ed esalta la gente comune. Un voto per il politico populista è un voto contro la politica stessa. La presunzione dell’elettorato è che il politico populista porterà al governo e al Paese un’onestà rinfrescante e una profonda comprensione verso il popolo, qualità che spesso mancano in politica.
Eppure il populista offre raramente una di queste qualità. Berlusconi non è un estraneo ai meccanismi. Guarda e parla come l’uomo medio, ne condivide alcune delle sue preoccupazioni reali, ma nessuna delle sue preoccupazioni economiche (Mediaset, di cui è proprietario, fattura 9 miliardi di euro, mentre Berlusconi dichiara un reddito di circa 48 milioni di euro). Egli è il trionfo dell’immagine sulla verità, la cosa per cui invece è stato eletto. In passato, Berlusconi è stato clamorosamente considerato “umano” ed è stato amato per i suoi difetti. La sua chiacchierata onestà, le gaffe, le barzellette, gli incontri con la bandana, la dedizione alle giovani figure femminili di cui si è sempre circondato, prima e, soprattutto, dopo il fallito matrimonio con Veronica Lario hanno ampliato i suoi difetti, quelli a cui l’uomo comune ha attinto finora per farne il capro espiatorio dei propri difetti. Lo sviluppatore dell’antipolitica Silvio Berlusconi, l’uomo che imbarazzava il Paese all’estero, era, in casa propria, il comunicatore più espressivo, il vero imbonitore delle televendite mediatiche basate sulla protesta e la disobbedienza. I venti anni trascorsi al potere hanno smorzato i toni della protesta di massa: oppositori, sindacati, intellettuali hanno scoperto il fianco ai suoi colpi bassi. Nel breve interregno di Prodi, in cui un governo di centrosinistra ha relegato per poco tempo Berlusconi all’opposizione, si è notato come fosse complesso governare una nazione. Prodi era visibilmente invecchiato mentre era in carica. Berlusconi, benché abbia più volte fatto ricorso alla chirurgia estetica, ha reso apparentemente tutto semplice, anche se lui stesso non sia riuscito ad afferrare i problemi complessi del paese.
Fino a che punto il politico populista Berlusconi si è alienato l’elettorato? La risposta sembra essere: fino a quando la verità non è venuta a galla. Berlusconi è finto, è sempre stato finto. Era un dato di fatto già prima anche ai suoi sostenitori, ma c’era un motivo per cui, favorevoli e demonizzatori di Berlusconi si erano sottomessi alla sua forza dominante. Oggi la rabbia sociale si è concretizzata nei fatti. Berlusconi è un uomo umanamente vecchio. Le sue “bravate”, percepite in passato come un diversivo tipico dell’uomo, oggi sono interpretate diversamente. L’uomo qualunque, che era giunto al potere tra le ovazioni degli uomini qualunque, è interpretato come un abusivo dei palazzi del potere. La rabbia sociale si è organizzata. L’uomo comune-populista-ricco Berlusconi si è dovuto confrontare con l’uomo-tecnico-pragmatico-equilibrato Mario Monti e con l’uomo buono-onesto-competente Pier Luigi Bersani. La schiettezza del populista, che prima era intesa come una forma di verità, ha mostrato il suo vero volto. Il populista ha fallito, e oggi, parlando a vanvera, ripresenta se stesso alla guida di un nuovo governo. Le tasse non sono state ridotte, il debito pubblico è aumentato disperatamente, l’Italia sprofonda nel baratro, ma la colpa non è di Berlusconi. “E’ tornato il Pagliaccio” hanno tuonato all’estero.
Perché la “rabbia sociale” non ha portato, nel ventennio berlusconiano, a disordini o proteste? In passato, una rabbia diffusa e la passività collettiva potevano coesistere fianco a fianco. Eravamo arrabbiati, ma non avevamo intenzione di fare qualcosa al riguardo. Avevamo delegato il populista Berlusconi a rappresentarci.
Con l’avvento di internet, abbiamo speso la nostra rabbia sui blog e non abbiamo messo alcuna rabbia nella protesta reale. La tecnologia ha separato e reso più indiretta la nostra comunicazione, impersonale ed emotivamente piatta.
C’è stato un declino in termini di condivisioni di idee tra persone. La perdita delle ideologie ha aggravato la nostra insicurezza. La tecnologia ha giocato un ruolo nel nostro isolamento. Oggi, invece, la tecnologia è diventata l’arma vincente. Purché i politici imparino a colloquiare con la gente. Prima che l’immagine plastica di un uomo, solo al comando, non si riprenda la Repubblica.

La finta seduzione del populista

Non ammazzare la cultura. Di cultura si deve vivere.

cultura-9Non ammazzare la cultura. Di cultura si deve vivere.

“Negli ultimi decenni, il ritmo di cambiamento del mondo è andato accelerandosi. Il rapido emergere di nuove tecnologie e la crescente globalizzazione hanno significato per l’Europa e altre parti del mondo una svolta profonda, caratterizzata dall’abbandono di forme tradizionali di produzione industriale e dalla preminenza assunta dal settore dei servizi e dall’innovazione. Le fabbriche sono progressivamente sostituite da comunità creative, la cui materia prima è la capacità di immaginare, creare e innovare”. Questa visione si traduce in modo ancora più articolato e tuttora in corso di definizione all’interno della visione strategica dell’Europa 2020, che delinea alcuni assi strategici portanti di grande importanza:

1. Nuovi spazi per la sperimentazione, l’innovazione e l’imprenditorialità nel settore della cultura e della creazione.

2. Rispondere meglio ai fabbisogni di competenze delle industrie culturali e creative.

3. L’accesso al finanziamento per gli imprenditori culturali e creativi.

4. La dimensione locale e regionale delle industrie culturali e creative.

5. La mobilità e la circolazione delle opere culturali e creative.

6. Il rapporto tra scambi culturali e commercio internazionale.

L’Italia fatica nelle ultime generazioni a tenere il passo di paesi un tempo outsider ma oggi molto più efficaci di noi nell’allevare e nel far maturare nuovi talenti. Le evidenze che supportano l’idea che i settori culturali e creativi siano una delle forze trainanti dei nuovi modelli di economia basati sulla conoscenza sono chiare e concordanti. A livello regionale europeo, ad esempio, esiste una netta relazione tra livello locale di concentrazione delle industrie creative (in termini di occupazione settoriale) e prosperità in termini di PIL pro capite.

I paesi nei quali la mancata partecipazione culturale assume proporzioni più ridotte sono i paesi nordici, nei quali si riscontrano allo stesso tempo performance innovative a livello di sistema paese molto buone. Interessante è un caso come quello dell’Estonia, che pur essendo un piccolo Paese ex comunista, ha mostrato in questi anni una notevole propensione a sviluppare forme avanzate di digitalizzazione della propria economica e della pubblica amministrazione – un fenomeno che sembra riflettersi perfettamente nei livelli particolarmente alti di partecipazione culturale. All’interno di questa classifica, l’Italia presenta livelli di partecipazione molto bassi (fa peggio solo la Spagna): un dato che segnala in modo piuttosto chiaro come attualmente, nel nostro Paese, il ruolo relativamente marginale della cultura all’interno del dibattito sullo sviluppo riflette una più intrinseca debolezza dal punto di vista dell’inserimento della sfera culturale negli spazi stessi della vita quotidiana dei cittadini. L’inefficacia dell’azione di politica culturale è quindi la conseguenza di un più profondo limite sociale, uno stato di cose particolarmente preoccupante per un Paese che viene universalmente identificato con i temi e i valori della produzione culturale.

Sorprendentemente, d’altra parte, gli italiani tendono a dichiarare che la cultura gioca un ruolo molto importante nelle proprie vite, addirittura in misura superiore a quanto accade in paesi con livelli di partecipazione ben più alti.

Ma d’altra parte, se si prova a verificare cosa sia in concreto la cultura per gli italiani, si scopre che essa tende ad identificarsi e in parte a confondersi, da un lato, con la scienza e più in generale con la conoscenza e, dall’altro, con la famiglia e con l’educazione.

In Europa troviamo, allo stato attuale, una situazione duale relativamente ai modelli di sviluppo a base culturale: da un lato, nei paesi nordici, nel Regno Unito, in Francia, in Belgio e in Olanda e nei paesi di lingua tedesca, nonché in alcuni paesi ex socialisti dell’est come l’Estonia e la Lituania, prevale un approccio basato sulla produzione culturale e creativa; dall’altro, nella maggior parte dei paesi mediterranei come l’Italia e la Grecia e in molti paesi ex socialisti, ad esempio Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca e Ungheria, prevale invece un approccio centrato sul turismo culturale nel quale la cultura gioca un ruolo abbastanza ancillare.

L’approccio europeo si fonda su quella che potremmo chiamare la classificazione canonica delle industrie culturali e creative, nella quale si evidenziano, nell’ordine: un nucleo di settori non organizzati industrialmente e strutturalmente non orientati alla formazione di profitti se non in sotto-ambiti relativamente limitati (arti visive, spettacolo dal vivo, patrimonio storico-artistico); cinque settori che costituiscono le industrie culturali vere e proprie, ovvero quei settori di produzione nei quali l’esperienza culturale assume un carattere non funzionale (non configura cioè ulteriori utilità rispetto alla fruizione culturale in quanto tale) – ovvero l’editoria, il cinema, la musica, la radio-televisione ed i video-giochi; tre settori che corrispondono alle industrie creative, nelle quali la componente creativa è bilanciata da considerazioni di utilità relative a funzioni extra-culturali, ovvero il design (che comprende anche la moda e, in prospettiva, anche l’industria del gusto nella sua componente più qualitativa e di ricerca), l’architettura e la pubblicità. La differenza tra industrie culturali e creative non sempre è colta ma è di fondamentale importanza: a differenza di quanto accade nell’industria culturale, in quella creativa il metro di valutazione combina appunto elementi creativi con giudizi funzionali: una bella pubblicità che non è efficace nel favorire le vendite di un prodotto, un’architettura spettacolare che però non risulta vivibile per chi la abita, o una bella sedia che però provoca il mal di schiena a chi ci si siede sono esempi di prodotti che possono raggiungere anche esiti notevoli dal punto di vista estetico ma falliscono in tutto o in parte dal punto di vista funzionale, pregiudicando così il loro potenziale di mercato e quindi la profittabilità dei loro produttori.

Industrie creative

Design

Architettura

Pubblicità

Industrie culturali

Film e video

Televisione e radio

Videogiochi

Musica

Libri e stampa

Core delle arti

Arti visive

Spettacolo dal vivo

Patrimonio storico-artistico

Industrie collegate

Produzione di computer e lettori digitali, industria della telefonia mobile, ecc.

Questo quadro già così complesso e articolato viene ulteriormente arricchito dallo sviluppo dei nuovi settori dei contenuti culturali e creativi su piattaforma digitale, che in gran parte non si adattano del tutto alla precedente classificazione, che fa riferimento a schemi produttivi e organizzativi in genere anteriori all’ultima ondata della rivoluzione digitale. Piattaforme di contenuti online come quelle legate ad aggregatori con una componente social più o meno spiccata come Youtube, Flickr. Ci troviamo dunque nel mezzo di un processo di rapido cambiamento, nel quale l’organizzazione stessa dei settori culturali e creativi subisce un ri-modellamento pressoché continuo, che porterà con tutta probabilità all’emergere di nuove classificazioni e di nuove forme di interdipendenza strutturale tra settori.

La rivoluzione prodotta dalla crescente diffusione delle tecnologie digitali di produzione dei contenuti culturali e creativi, che da un lato permette ad utenti anche semiprincipianti di avere accesso a tecnologie estremamente potenti e sofisticate e dall’altro rende tali tecnologie sempre meno dipendenti da specifici supporti hardware e sempre più accessibili in termini di prezzi, tende a favorire una diffusione sempre più profonda e capillare della produzione e circolazione di tali contenuti pressoché in ogni angolo del globo. La necessità di un ripensamento complessivo del modello di riferimento, e lo spostamento dell’enfasi dalla cultura come settore ancillare al turismo alla cultura come settore industriale di primo piano e dall’alta valenza strategica passa anche per il nostro paese da una rinnovata capacità di entrare a far parte in modo più attivo di questo poderoso flusso globale di ridefinizione della geografia culturale, riuscendo ad andare al di là di logiche limitate e strumentali di promozione della dimensione più ‘manifatturiera’ della moda, del design e del cibo, per tornare ad esaltarne le valenze socio-culturali più sottili, per sottolinearne e stimolarne la portata innovativa, per tornare a promuovere una visione della cultura e della creatività italiana più integrata strategicamente e più dinamica, complessa, articolata di come la si presenta oggi.

Le conseguenze dell’immobilismo: come è cambiata nel tempo l’identità culturale italiana nel contesto globale

All’inizio del Novecento, l’Italia è dominatrice incontrastata nel campo dell’arte, vince anche se di stretta misura nell’architettura, è seconda solo ai francesi nel design e nella moda, non è in posizioni di primo piano nel teatro e nel cibo, mentre il cinema deve ancora fare la sua comparsa. Alla metà del Novecento (ovvero, nel corso degli anni Cinquanta), l’Italia parte dal terzo posto nell’arte e scivola al quarto nel corso del decennio, parte dal quarto e scivola al quinto nell’architettura, conquista una breve supremazia nel cinema che però perde già prima della fine del decennio, si mantiene al quinto posto nella moda, oscilla tra il quinto e il sesto posto nel design e nel teatro, e mostra una progressione dal settimo al quinto posto nel cibo. Nel 2000, l’Italia è settima (su sette) nell’arte, nel teatro e nel cinema, è sesta nell’architettura, è quarta nel design, è terza nel cibo e nella moda. In altre parole, quel che emerge è che nel corso del novecento l’Italia perde nettamente posizione nei settori culturali, mentre mantiene una buona percezione globale nei settori creativi legati al design in tutte le sue forme, pur non potendo vantare in nessun campo una posizione di preminenza globale. L’unica area nella quale si registra un miglioramento di lungo termine di posizione relativa nel corso del secolo è quella del cibo.

Ciò che questi dati ci dicono è che, contrariamente alle nostre convinzioni radicate, l’identità culturali italiana è preda di un lento ma abbastanza costante processo di erosione rispetto ai competitor globali che, a differenza di noi, lavorano sul tema dell’identità culturale non soltanto in termini di estrazione di rendita, facendo cioè leva soltanto sui successi e sulle glorie del passato o, nel caso di settori creativi come la moda o il design, del passato prossimo, ma investono decisamente sul rinnovamento e il rafforzamento del potenziale creativo attuale. Non è un caso che l’unico settore che guadagni posizioni sulla scala globale sia quello del cibo: è infatti l’unico settore culturale e creativo nel quale in Italia, negli ultimi anni, si è fatta una reale politica di crescita del pubblico in termini di informazione, competenza, sensibilità alla cultura del territorio. La drammatica sottovalutazione del potenziale strategico della cultura, e il sostanziale disinvestimento che ne è la conseguenza, stanno così progressivamente togliendo spazio ed energia al nostro posizionamento globale in termini di valore aggiunto culturale legato all’identità della nostra produzione, a scapito di paesi con una tradizione culturale spesso molto minore, ma di fatto oggi molto più dinamici e propositivi di noi.

POSIZIONE MONDIALE ITALIA

                       ARTE   ARCHITETTURA  DESIGN  MODA  CIBO

ANNO 1900     1a                     1a                        2a                2a             2a

 

ANNO 1950     3a                    5a                       1a               5a               2a

 

ANNO 2000     7a                     6a                        4a               3a              3a

 

Rilanciare il modello italiano: un nuovo modo di intendere il potenziale di sviluppo del nostro patrimonio storico-artistico

 

Per rilanciare il modello italiano di sviluppo a base culturale occorre mettere in atto delle strategie di sviluppo locale che restituiscano spazio e impulso a quei fattori di sviluppo che sono stati progressivamente trascurati e che nella situazione attuale, in assenza di interventi specifici, contribuiscono a minare la nostra capacità competitiva.

Incubatori di imprenditorialità creativa.La produzione culturale e creativa è una delle aree più promettenti a livello globale per la generazione di nuova imprenditorialità, ma per quanto in Italia si inizi a considerare seriamente il tema dell’innovazione e del sostegno delle start up giovanili, l’attenzione verso questo settore, malgrado le potenzialità e i continui richiami all’importanza della cultura per il futuro del nostro paese, è pressoché nulla. Il recupero degli edifici di pregio storico-architettonico viene sempre finalizzato alla valorizzazione turistica, ma nessuno sembra pensare che in Italia quegli edifici sono storicamente serviti a produrre cultura e pensiero, e forse in alcuni casi è a questo scopo che potrebbero essere recuperati.

Acceleratori design-oriented. Uno dei temi sensibili di maggior rilevanza per il modello italiano è la ridefinizione creativa di produzioni dal forte radicamento territoriale e dal forte contenuto potenziale di design, che nella fase attuale hanno operato più secondo logiche di filiera tradizionali che sulla spinta di un forte investimento nella caratterizzazione creativa della loro produzione.

Spazi di relazione. Piuttosto che programmare l’apertura di spazi culturali per flussi di turisti sporadici o addirittura in qualche caso inesistenti, sarebbe possibile progettare la destinazione d’uso di questi spazi in primo luogo a beneficio dei residenti, per affrontare il tema decisivo e del tutto trascurato dei bassi tassi di partecipazione culturali dei cittadini italiani.

Spazi residenziali per artisti e professionisti creativi. La pratica delle residenze creative ha ormai una lunga tradizione, è oggi molto diffuso a livello internazionale, e trova anche in Italia molte significative manifestazioni, e può contribuire in molti modi ad aumentare la capacità innovativa e la connessione internazionale di un territorio. Proporre un programma di residenze significa essenzialmente mettere a punto un programma continuativo di scambi di talenti, progetti e competenze con altri territori con i quali si vuole stabilire un rapporto di cooperazione strategica di lungo termine.

Spazi di produzione di conoscenza. Da sempre sono note le potenzialità degli spazi di pregio storicoartistico nell’ospitare centri di formazione e di ricerca di respiro internazionale, una funzione che si integra in modo particolarmente naturale ed efficace con le altre sopra definite. La costituzione di partnership con realtà accademiche e scientifiche prestigiose, la presenza di ricercatori e studenti provenienti da varie nazioni del mondo, la possibilità di attrarre investimenti tanto ai fini del recupero che della gestione degli spazi costituiscono opportunità.

Spazi commerciali e industria del gusto. Di fronte all’inesorabile trasformazione degli spazi commerciali dei centri storici italiani in repliche sempre più letterali ed omogenee di un unico modello, nel quale sono presenti sempre gli stessi marchi, gli stessi concept dello spazio vendita, gli stessi allestimenti e gli stessi prodotti, sarebbe forse opportuno pensare ad una rivitalizzazione di spazi di elevata valenza storico-culturale dotati delle caratteristiche e della localizzazione adatte per ospitare anche funzioni commerciali di particolare interesse e pregio culturale, con riferimento tanto alle eccellenze del territorio che ad un’offerta esterna di particolare pregio, qualità ed innovatività.

Spazi di produzione culturale. Da ultimo, ma non per ultimo, rimane naturalmente la funzione della produzione culturale in quanto tale: mostre, performance, concerti, conferenze, e così via: una attività che trova un suo senso nel momento in cui non viene più concepita come un segmento estremo e limitato di una più vasta industria dell’intrattenimento, ma come un nodo centrale di un sistema di innovazione sociale orientato all’uso più attivo e creativo delle competenze e dei talenti disponibili.

Dal Rapporto “L’Italia che verrà” di Pierluigi Sacco Professore Ordinario di Economia della Cultura IULM.

Non ammazzare la cultura. Di cultura si deve vivere.

Insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: cultura e lavoro

Giuseppe Di Vittorio : cultura e lavoro

Le generazioni moderne sanno poco o nulla di Giuseppe Di Vittorio, certamente una delle personalità più ricche e affascinanti espresse dal movimento sindacale italiano. Vien da chiedersi fino a che punto la sinistra italiana si sia realmente resa conto della crisi di una vecchia cultura politica e dei suoi aspetti più sconcertanti, come la fatale subalternità corporativa delle lotte sociali, il primato del partito, l’impossibilità per il sindacato di esprimersi come soggetto politico. Di Vittorio con la sua concezione dell’autonomia del sindacato, del sindacato come soggetto politico, ha saputo indicare una prospettiva riformatrice in cui proposta e iniziativa di massa erano unite da un nesso inscindibile, capace di vagliare la validità e la coerenza di ogni singola scelta politica in un processo democratico che sfuggisse alle insidie del trasformismo, del leaderismo e del consenso passivo verso i “capi”. Di Vittorio ha il merito storico di avere avviato la rottura delle liturgie del leninismo, anche grazie a un’acuta percezione della complessità del processo sociale, che spingeva il sindacalismo confederale in una dimensione politica

“Io non sono, non ho mai preteso, né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura. Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana… La cultura non soltanto libera queste masse dai pregiudizi che derivano dall’ignoranza, dai limiti che questa pone all’orizzonte degli uomini: la cultura è anche uno strumento per andare avanti e far andare avanti, progredire e innalzare tutta la società nazionale…

Io sono, in un certo senso, un evaso da quel mondo dove ancora imperano in larga misura l’ignoranza, la superstizione, i pregiudizi, gli apriorismi dogmatici che derivano da questa ignoranza. Io lo conosco quel mondo, profondamente. Ci sono vissuto e so quanto siano grandi gli sforzi che occorrono per tentare di uscirne. Ma in quel mondo, dietro quel muro, vi sono ancora milioni di italiani, milioni di fratelli nostri. Tutte le iniziative, tutte le forme di organizzazione, tutti i tentativi debbono essere fatti per accorrere in aiuto di questi nostri fratelli, per aiutarli a liberarsi da questa ignoranza, perché anch’essi possano provare a sentire le gioie e i tormenti dell’accesso al sapere. Dobbiamo andare fra quelle masse di nostri fratelli, chiamarle, stimolarle alla vita nuova, al sapere, al conoscere, a vedere alto e lontano; dobbiamo andare come un trattore potente su un terreno incolto da secoli per fecondarlo e trarlo a coltura, a vita, a bene della società…”

 Stralcio dal discorso al II congresso della cultura popolare, Bologna 11 gennaio 1953

 

LA DONNA E LA CULTURA
Lo abbiamo sentito parecchie volte: “L’inferiorità delle donne è dimostrata dal fatto che mai scoperto nulla, nono sono mai nati dei Leonardo da Vinci e dei Fermi tra le donne.” Anzi, c’è chi lo dice ancora oggi. Ebbene sì è vero, salvo rarissime eccezioni (ad esempio Marie Curie, Rita Levi Montalcini), nel corso dei secoli non ci sono state molte donne-genio che abbiano inventato o scoperto qualcosa di eccezionale. E come potevano se la loro destinazione “naturale” era fare figli e occuparsi della casa? La cultura, quella che precede ogni possibilità di emergere in campo culturale, non era estesa alle donne bensì ai soli uomini e neppure a tutti. Gli schiavi, ad esempio, non avevano il diritto, e, infatti, neppure tra loro è nata una figura culturalmente importante. Se spostiamo la nostra attenzione su un altro campo, quello sportivo ad esempio, vediamo come le nazioni con un maggior numero di medaglie, alle Olimpiadi, sono quelle che hanno una diffusa pratica sportiva e sin dalla più tenera età. Dal momento in cui le scuole vennero aperte anche alle donne e la cultura divenne un fatto accessibile, sia ai maschi che alle femmine, cominciarono ad emergere alcune importanti figure femminili. Ma questo diritto di parità in campo scolastico è alquanto recente e non possiamo pretendere che se ne vedono i frutti in breve tempo. La stessa educazione che i maschi ricevono, li avvia verso una maggiore qualificazione culturale, mentre permangono ancora, verso le femmine, alcuni  pregiudizi che le scoraggiano. Se è vero che entrambi, maschi e femmine, hanno raggiunto parità di diritti, poiché nessuna legge italiana pone divieto alle femmine nell’affermazione professionale, in realtà solo pochissime donne raggiungono traguardi professionali di prestigio. E, cosa ben più grave, sono ben poche le donne che detengono posti importanti nella vita politica o economica della nazione. La stessa qualificazione professionale tra le operaie è nettamente inferiore a quella dell’uomo, cosicché tocca ad esse occupare quei posti meno qualificanti e meno retribuiti.
Sono questi i frutti di una secolare posizione d’inferiorità della donna? O vi è da parte delle femmine stesse remora profonda ad impegnarsi culturalmente e professionalmente? Probabilmente entrambe le cose. Si registrano casi di donne che, giunte all’apice del successo, mollano tutto e ritornano a dedicarsi al vecchio ruolo di madre e di moglie ma sempre per libera scelta.

Il tempo, le nuove tecnologie e le invenzioni non sono serviti a migliorare le condizioni e l’immagine della donna, nella maggior parte del globo. Le donne sono infelici, insoddisfatte, confuse, maltrattate, discriminate ed emarginate; vivono nella paura, tra violenze ed abusi all’interno di mura “sicure e silenziose”: nelle loro case, nei luoghi di lavoro da parte di familiari o amici. Molti pensano che oggi la donna debba essere quella della TV, della pubblicità, ma allora la schiavitù delle donne non è finita. Il passato ci “regala” donne rinchiuse in case, mute e sofferenti nella loro solitudine e indifferenza da parte della società maschile e oggi le ritroviamo schiave di un’identità che non appartiene loro: molte di loro, infatti, hanno rafforzato involontariamente il maschilismo. La donna è apertura all’accoglienza, entusiasmo per l’amicizia, tolleranza del dolore, costanza negli impegni, capacità di scelte forti e definitive, eccezionalità di intuito. Peccato che la mentalità corrente non sappia leggere tutta questa ricchezza e si fermi ad elencare piuttosto i difetti e i cedimenti. La donna è molto diversa da come viene presentata dalla pubblicità e dai mass-media. È necessario allora che l’uomo e le donne riscoprano le loro radici, i loro ruoli, le loro capacità per poi collaborare reciprocamente per spezzare le catena della violenza e creare quella del rispetto e della dignità. Forse solo allora la donna potrà dire di essere più felice.

LAVORO

‘’L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro…’’; questa, che è una delle più celebri frasi della nostra costituzione, esprime tutto il peso che il sociale e il lavoro hanno nella suddetta Carta; apporto che le fu conferito da una delle personalità più forti e importanti del novecento italiano: Giuseppe Di Vittorio.

Art.3.  “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

Art,37. “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e stesa parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni del lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”

Art.51. “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.”

 

IL LAVORO È UN’EMERGENZA DEMOCRATICA

L’intervista a Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, è stata pubblicata dal quotidiano, “Il Tirreno”.

Rabbia, esasperazione, assenza di prospettive. Con qualche ministro che di fronte a vertenze come l’Alcoa allarga le braccia e dice: Non c’è più niente da fare. “Il sindacato ha reagito, lottato ma dopo quattro anni di crisi tremenda, in primo luogo occupazionale, servono risultati”, commenta Fulvio Fammoni, sino a pochi mesi fa membro della segreteria nazionale della CGIL e ora preidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
Rigira tra le mani il rapporto sull’occupazione appena sfornato dall’Ires, l’ufficio studi della confederazione, che disegna un’Italia in ginocchio con 4 miliardi e mezzo di cittadini dentro l’area della “sofferenza occupazionale”.

Che cosa significa?

“Che ai due milioni e settecentomila disoccupati censiti dall’Istat bisogna aggiungere un milione e settecentomila cittadini definiti scoraggiati e cassa integrati. Questi dati sono il frutto di scelte antiche e recenti”.

Quali scelte sbagliate?

“E’ evidente che il meccanismo scelto per ridurre il deficit ha presentato il conto al lavoro e ai lavoratori.”

Monti dice che ha salvato l’Italia dal baratro.

“Per far tornare i conti ha però operato una politica di tagli al bilancio che si sono scaricati sull’economia reale. Le scelte del governo hanno avuto un effetto depressivo sull’economia e si sono scaricate sui lavoratori.
I dati sull’occupazione sono inoppugnabili.”

L’Italia va peggio degli altri?

“Peggio rispetto al tasso di disoccupazione europeo. Inoltre un terzo dei nuovi disoccupati nell’Ue sono italiani. Il governo non sembra reagire a quest’emergenza, l’Italia scende sempre più in basso”.

Le riforme fatte non funzionano?

“Far pagare tutto al lavoro e scaricare la crisi sui lavoratori non solo ha effetto depressivo ma si ripercuote sui consumi e la produzione. Che cosa fa quell’area enorme di disoccupati, inoccupati, scoraggiati e cassa integrati? Che cosa può consumare? Noi siamo un Paese manifatturiero che utilizza il 70% del suo prodotto nel mercato interno. Chi compra in queste condizioni di perdita di lavoro?”

Eppure la riforma Fornero intendeva togliere lacci, liberare il lavoro…

“E invece la disoccupazione giovanile non è mai stata così devastante. Fornero e il governo avevano promesso che con la riforma sarebbe cambiato il sistema di vita degli italiani. Non so se gli italiani siano contenti di come stanno vivendo”.

Che cosa fanno invece le imprese?

“Di fronte alla crisi operano comprimendo i costi del lavoro: un lavoro meno pagato, pensano sia meglio. Sono miopi, perché in Italia abbiamo un enorme addensamento di qualifiche medio basse che, quando la crisi sarà attenuata, faranno fatica a ricollocarsi. E con la crisi c’è stata una compressione dei diritti, una maggiore ricattabilità”.

Monti dice che le tasse non può abbassarle sino al pareggio di bilancio.

“Un grave errore. Oggi intervenire sul fisco non solo è una questione di giustizia ma anche un elemento produttivo di cresita. Il pareggio di bilancio con il Pil in calo o stagnante non potrà essere conseguito.”

Il governo promette crescita…

“Parole, piani fumosi e dilatati nel tempo. C’è bisogno di lavoro, subito. E’ un’emergenza democratica”.

Insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: cultura e lavoro

Democrazia e partecipazione

Democrazia e partecipazione. Sarebbe meglio dire: la democrazia è partecipazione?

I rapporti tra democrazia e partecipazione costituiscono il capitolo più controverso della scienza politica. Con la nascita delle società complesse della modernità questo modello di
democrazia si è evoluto verso nuove forme di democrazia rappresentativa ove il governo viene esercitato in nome dei cittadini, piuttosto che dai cittadini. Si introduce così una separazione tra governanti e governati che, in presenza dello sviluppo di un capitalismo di consumo che sottrae tempo e motivazione alla partecipazione politica, ha portato ad un impoverimento della stessa concezione di democrazia.

La conseguente “apatia” dei cittadini nei confronti della partecipazione politica viene non solo compresa ma in un certo senso legittimata.

Come si può realizzare una maggiore democratizzazione dei processi decisionali della politica allargando gli spazi per un coinvolgimento dei cittadini?

La democrazia diretta

I vantaggi della democrazia diretta:

I.) È l’unica forma di democrazia «pura». Si assicura che la gente rispetti la legge, perché molti possono rispettarla in quanto le approvano personalmente. La loro “volontà generale” diventa legge. Non c’è un abisso tra il governo e il popolo.

II.) Lo sviluppo personale; la democrazia diretta porta a una società colta. I cittadini sono informati e aggiornati così come molti sono invitati a prendere parte alla politica per capire come funziona la società o addirittura come dovrebbe funzionare.

III.) La democrazia diretta non consente alle persone di mettere al primo posto la loro fede perché i politici eletti non possano distorcere l’opinione pubblica.

IV) Un legittimo governo, la democrazia diretta assicura che il governo è stabile e il 100% è legittimo perché i cittadini sono responsabili delle decisioni che prendono e non si può incolpare nessun altro.

Inconvenienti di democrazia diretta:

I.) La democrazia diretta è incredibilmente impraticabile nel mondo moderno. Questa forma di democrazia richiede a tutti i cittadini si impegnano in politica e partecipino al processo decisionale (in base all’idea di uguaglianza politica). Tutti i cittadini devono essere in grado di incontrarsi in un unico luogo per esprimere la loro opinione. Questo è impossibile per l’intera popolazione.

II.) Anche la democrazia diretta implica che la politica è l’unico lavoro per i cittadini, che non si può pretendere di avere una carriera o di una vita personale, i cittadini non sarebbero in grado di svolgere qualsiasi altra attività.

La Democrazia rappresentativa

Caratteristiche della democrazia rappresentativa:

I.) La partecipazione popolare è indiretta: i cittadini scelgono chi prenderà le decisioni attraverso il voto elettorale.

II.) La partecipazione popolare è limitata come l’atto di votare è limitato. Si vota infatti ogni quattro-cinque anni.

III) La partecipazione popolare è mediata, le persone sono legate al governo attraverso varie istituzioni.

I vantaggi della democrazia rappresentativa:

I.) È una democrazia pratica. La democrazia rappresentativa è l’unica forma di democrazia che è effettivamente possibile, nel mondo moderno; la partecipazione popolare è breve e limitata.

II.) Si forma un governo di esperti. La democrazia rappresentativa prende decisioni attraverso i politici di professione; queste persone sono generalmente più istruite e con maggiore esperienza della maggior parte del popolo. Pertanto essi sono in grado di governare in base alla loro conoscenza che possiedono per l’interesse nazionale.

III.) La democrazia rappresentativa prevede la mediazione tra i cittadini e il governo. I cittadini comuni sono liberi di andare avanti con la loro vita poiché sono sollevati dal peso del processo decisionale, che consente a molti cittadini di avere una carriera e una vita sociale in quanto solo chi deve governare può decidere.

IV.) Si crea stabilità politica. La democrazia rappresentativa mantiene la stabilità in quanto il popolo è distanziato dalla politica, più è coinvolto più si appassiona e s’impegna, difficilmente accetta compromessi. La stabilità politica è mantenuta in quanto i cittadini dello Stato sono propensi ad accettare compromessi.

Democrazia rappresentativa

Inconvenienti di democrazia rappresentativa:

I.) La democrazia rappresentativa, in teoria, è una formalità. Questo perché l’atto del voto è quando il governo decide le elezioni. La gente in teoria non è responsabile di alcun controllo sul governo tra le elezioni, determinando della democrazia rappresentativa un insuccesso.

II.) C’è stata la crescente preoccupazione di come i politici rappresentano il popolo, sia attraverso la delega del mandato, o per rappresentazione descrittiva. Molta gente non riesce a farsi rappresentare da coloro che sostengono di rappresentarli.

La democrazia liberale

Una democrazia liberale è una forma di democrazia rappresentativa, quindi indiretta. Il diritto di reggere e governare si ottiene attraverso il successo elettorale sulla base di eguaglianza politica (una persona, un voto). Essa combina l’obiettivo liberale di governo limitato con un impegno per la democrazia e la partecipazione popolare.

In una democrazia liberale, le condizioni devono essere soddisfatte:

– Le elezioni devono rispettare il principio del suffragio universale e devono essere libere ed eque.

– La libertà civile e dei diritti individuali sono garantiti.

– Il governo deve operare in un quadro giuridico, costituzionale.

– Un’economia capitalista o privata.

Una democrazia liberale tenta di bilanciare il bisogno di democrazia con le libertà individuali e i diritti.

La democrazia liberale

Ci sono due tipi principali di democrazia liberale:

I.) C’è democrazia costituzionale quando il governo opera nell’ambito di chiari orientamenti costituzionali garantisce la tutela dei diritti individuali e delle minoranze. La democrazia costituzionale è associata con i paesi che hanno una costituzione codificata, tipo Stati Uniti, Francia, Italia e Germania.

II.) Non vi è democrazia maggioritaria in cui gli interessi di maggioranza hanno la precedenza sulle minoranze. Questa regola della maggioranza sottolinea gli interessi collettivi della società, piuttosto che gli interessi individuali.

La crisi della partecipazione.

A causa della crescente apatia degli elettori, l’Italia soffre di una crisi di partecipazione.

Nelle ultime elezioni regionali siciliane, meno della metà degli elettori ha votato, e il partito più votato è stato il Movimento 5 stelle. Gli iscritti dei partiti politici tradizionali sono diminuiti nel corso degli anni.

La lealtà a un partito è diminuita. Molte persone non si identificano con un partito o con l’insieme dei valori rappresentati da esso. Questo porta a molti “elettori fluttuanti”.

Tuttavia l’attivismo è aumentato, negando l’idea di una crisi di partecipazione. Il problema è legato alla disillusione della politica. Tuttavia l’affluenza alle urne è di vitale importanza per la salute di una democrazia rappresentativa.

Una crisi della democrazia?

Ci sono tre fattori principali che potrebbero spiegare l’affluenza in calo in tempo di elezioni.

Si potrebbe sostenere che la società, in generale, è diventata più materialista alla luce del consumismo attuale.

I media hanno causato enormi problemi di fiducia al popolo minando i valori per la politica. I media si sono allontanati da un’analisi politica seria spostando l’attenzione della gente sugli scandali di diversi politici, anziché approfondire i temi sociali.

Da parte loro, i politici non hanno fatto nulla per migliorare e recuperare la fiducia del popolo nella politica.

I politici sembrano preoccuparsi solo di essere eletti, tralasciando i principi e i valori morali.

C’è stata una crescita di portavoce che distorcono la verità per fornire risposte favorevole, al fine di ottenere il sostegno. La politica è diventata una questione di stile piuttosto che di sostanza.

I partiti hanno preso le distanze dalle ideologie che erano le loro radici.

Rafforzare la democrazia

Si attua mediante un ampliamento alla diretta partecipazione dei cittadini mediante un uso più ampio di referendum. Un referendum è un voto popolare attraverso il quale l’elettorato esprime il suo punto di vista su una politica particolare. Essi sono utilizzati per informare il governo delle diverse opinioni del popolo. I referendum sono un dispositivo di democrazia diretta.

Per i referendum

Il referendum fornire solo un’opinione pubblica in un determinato momento. I referendum promuovono l’educazione politica. Agiscono come uno strumento per ampliare la partecipazione, scatenando il dibattito su questioni particolari, che portano all’elettorato informazione ed educazione.

Rafforzare la democrazia

Obbligatorietà del voto elettorale. La crisi di partecipazione potrebbe essere risolta con l’introduzione di voto obbligatorio?

Per il voto obbligatorio

La nozione del voto obbligatorio va contro l’idea di democrazia, è una violazione della libertà individuale. Le persone possono scegliere di non votare in quanto potrebbero essere demotivati dalla mancanza di scelta tra i partiti e il sistema politico attuale.

La Democrazia digitale. La causa della crisi è la partecipazione con l’atto fisico di andare a votare. Molti di noi sono legati ai posti di lavoro, alle famiglie e alla vita sociale e non trovano il tempo per votare. Il voto diventa essenzialmente un peso. Molti chiedono una moderna forma di democrazia. Forse potremmo integrare la democrazia con l’era digitale, proiezione interattiva, e-mail, ecc.

LA SVOLTA

Per una democrazia digitale

La democrazia digitale consente una più facile partecipazione. La democrazia elettronica consentirebbe agli elettori di esprimere il proprio punto di vista con facilità senza avere una distrazione importante nella loro vita quotidiana, con un effetto positivo sulla partecipazione. La crisi della democrazia può essere spiegata come l’impossibilità della politica attuale a non essersi modernizzata. I cittadini hanno la possibilità di partecipare alle diverse forme di democrazia in maniera più diretta.

La democrazia digitale è relativamente facile da organizzare, altre forme di democrazia come il referendum richiedono molto tempo, risorse e costi maggiori.

La democrazia digitale non rappresenta una minaccia per l’”integrità” della democrazia. I diritti dei cittadini sono maggiormente tutelati e visibili a tutti.
La democrazia digitale permette al politico e ai partiti di entrare in contatto con i cittadini attraverso la Rete, cioè internet. L’uso di blog, filmati da commentare, newsletter ed email permette al politico di avere un contatto diretto con elettori e oppositori. Il politico di oggi che non sa e non vuole utilizzare questi strumenti di comunicazione dovrebbe farsi da parte. E’ auspicabile una maggiore diffusione di questi mezzi nei prossimi anni. Il cittadino pretende una maggiore partecipazione alla politica e la rete rappresenta lo strumento per essere aggoirnato delle attività del politico e per rimanere in comunicazione con questi. E’ auspicabile che il politico risponda all’email dei cittadini, altrimenti in mezzo di comunicazione diretto, come internet, può ritorcersi contro. E’ altresì auspicabile che non solo le più giovani generazioni ma anche le persone più mature imparino a comunicare tra di loro e con i politici attraverso la rete.

Come si rafforza la democrazia?

Riduzione dell’età per il voto. Oggi i giovani sono molto insoddisfatti a causa della stampa scandalistica che li definisce “giovani delinquenti” o “bamboccioni”. Abbassare l’età di voto migliorerà la maturità nei giovani. Anche l’età della maggioranza è incoerente. A 16 anni si è in grado fare le stesse cose del diciottenne. Con la crescita di una serie di organizzazioni giovanili democratiche, si potrà abbassare l’età di voto.

Abbassare l’età per votare

Il politico sarà costretto ad affrontare  gli interessi e le problematiche dei giovani, come la droga, l’alcol, la scuola, lo sport, la cultura, il divertimento e tutti gli interessi giovanili che sono sempre più ignorati portando a una generazione dimenticata.

È inammissibile dire che i giovani di 16 anni sono immaturi e ignoranti. Non si sembra che attualmente sia negato il diritto di voto agli adulti ignoranti.

Abbassando l’età per votare i giovani rafforzano i loro interessi nella politica. Questo porta a un più forte impegno politico come un’altra porzione della società che partecipa alla politica.

La partecipazione rafforza la democrazia.

Democrazia e partecipazione

La cultura secondo Nichi Vendola

La fabbrica della creatività

Ascoltando Go-Do di Jonsi, 2010

Leggendo Massa e potere di Elias Canetti, Adelphi, 1981

 Vedendo Nashville di Robert Altman, 1975

 “La gente non mangia cultura.

Giulio Tremonti

8.10.2010

Nel Paese che spende assai meno dell’1% del proprio budget in cultura, abbiamo dovuto sopportare anche le battute odiose del tremontismo coatto. Sedici anni d’ignoranza pervasa dall’idea che artisti e produttori di cultura siano dei parassiti scansafatiche, inetti al lavoro vero. E che il dibattito politico possa farsi a suon di tabelline e diti medi.

Un ciclo che sta chiudendosi con il più drammatico taglio al Fondo Unico dello Spettacolo della storia e con la totale assenza di idee per il rilancio di patrimonio artistico e attività culturali. Il crollo di una delle gallerie di Pompei ne è la metafora più atroce.

L’investimento pubblico in cultura e necessario perché il mercato non investe dove non ci sono margini immediati. Lo dobbiamo a noi stessi e alle generazioni che verranno. Investire in cultura, tanto più nei momenti di crisi economica, salva il Paese dallo sfarinamento morale e dalla deriva economica, perché cultura significa innovazione e creatività. Innovare significa allargare la base produttiva, creando ricchezza da redistribuire.

La destra italiana non capisce questo processo.

Perché non ha compreso che tutto sta cambiando nel mondo.

Avere vent’anni oggi, infatti, non significa solo essere certi che flessibilità e precarietà siano sinonimi. Significa anche raggiungere mete e persone lontane con voli a basso costo, avere libero accesso a fonti di in/formazione multiple e plurali, conoscere cose che, gli esseri umani cresciuti anche solo cinquanta anni fa, non potevano nemmeno immaginare possibili. È un mondo nuovo, innervato di conoscenza e di competenze diffuse, liberamente accessibili e condivisibili.

A patto che, per chiunque, sia consentito studiare, approfondire, conoscere e avere accesso alle nuove tecnologie della comunicazione orizzontale, basate sul web. A patto, cioè, che il tasso d’ingiustizia del futuro, non si misuri tra chi sa usare una macchina e chi ne subisce i suoi usi distorti. Tra chi ha accesso al sapere – e al potere – e chi rimane impigliato nel bozzolo disperante della propria condizione sociale di partenza.

Per questo pensiamo che vada immediatamente innervata l’intera penisola di fibra ottica, per garantire l’accesso al web veloce e a servizi pubblici comuni. Un bene prezioso, la rete internet, perché veicola contenuti e facilita la comunicazione tra lontani e diversi.

Comunicare e trasferire contenuti. Due lemmi, se si pensa bene, che solo apparentemente sembrano in contrasto fra loro. Sono, infatti, uniti dal formato e veicolati dall’industria culturale.

Conosciamo l’etica hacker e amiamo compulsivamente l’i-phone o il blackberry. E invidiamo il nerd compagno di viaggio in treno o aereo che usa con disarmante disinvoltura palmari e touch screen, scivolando virtuosamente sugli schermi del nostro desiderio consumistico. E ci innervosiamo, figli incantati e saettanti, nel vedere i nostri nonni e genitori alle prese con le penne usb o le connessioni adsl.

E allora occorre capire, di questa grande rivoluzione quotidiana e di questa guerra permanente tra formati e offerte premium, cosa dobbiamo salvare e cosa dobbiamo sconfiggere, per consentire al maggior numero di cittadini d’aver accesso ai contenuti e diritto di parola, senza censure né cesure della propria identità. La parola scritta arriva ovunque e non trasporta soltanto l’informazione, che invece può essere nascosta, fermata, diffamata, ma trasferisce qualcosa che solo gli occhi del lettore possono smentire e confermare. Questa potenza non puoi fermarla se non fermando la mano di chi la scrive. La potenza della parola spaventa. Per il governo italiano è più temibile Saviano che falso in bilancio.

La libertà di stampa, ripristinata dopo la caduta del regime fascista, è un baluardo fondamentale della nostra Costituzione. È un principio su cui deve tornare a discutere l’intera classe politica. Ma questo atteso dibattito è stato rimandato per troppo tempo. Oggi occorre ripensare all’intera strutturazione del panorama mediatico, ostaggio degli interessi di una sola persona su cui, peraltro, grava il conflitto di interessi più grande della storia italiana, del duopolio Rai-Mediaset e dell’occupazione partitica della tv di Stato.

Contemporaneamente, crediamo sia possibile abbattere i muri innalzati dai potenti e dai governi a protezione dello status quo. C’è un Italia migliore che non si vede ma che vive nella realtà di internet e nel luogo possibile della Rete in cui un numero indefinito di persone dialogano, si scambiano esperienze facilitando la conoscenza e la naturale predisposizione dell’essere umano all’empatia.

La Rete consente l’estensione delle capacità delle donne e degli uomini e preme per l’attuazione di forme di democrazia partecipata, in cui ognuno è chiamato al proprio compito di cittadino del mondo. Internet rimpicciolisce il pianeta e allarga il dialogo permettendoci di osservare ciò che succede in ogni parte del mondo. Pensiamo al ruolo della Rete e delle sue applicazioni nella vicenda delle scorse elezioni politiche in Iran. Anche le grandi testate e i telegiornali utilizzavano immagini e video amatoriali estratti dalla rete. Pensiamo a come tutto il mondo abbia avuto la possibilità di osservare e guardare ciò che altrimenti sarebbe stato impossibile per via della censura imposta dal governo iraniano. E pensiamo a Neda, divenuta simbolo di quella lotta e di quelle rivendicazioni proprio perché la sua morte ha bucato i limiti e i confini del suo paese, entrando nel nostro privato, riannodando i fili di un’umanità lacerata. La Rete costruisce pace perché unisce, perché narra porzioni di racconto che altrimenti non avrebbero voce.

L’altro spunto di riflessione è l’ostacolo alla libera circolazione della musica che minaccia lo sviluppo della produzione discografica e multimediale. Non è stata la tecnologia informatica a uccidere la musica e, insieme, a farla risorgere grazie ad i-tunes? E cosa aspettiamo ad abbassare l’iva sulla musica, introducendo su tutta la filiera dei prodotti multimediali e culturali una tassa di scopo capace di rispettare i vincoli posti dalla Ue?

Noi pensiamo vada riformata la gestione dei diritti di proprietà intellettuale a partire dalla Siae. E che vadano introdotte le licenze di creative commons che, insieme all’uso sapiente della leva fiscale che va necessariamente abbassata sui prodotti culturali e alzata su quelli di mero intrattenimento e consumo di massa, sono la migliore risposta contro la pirateria, per sottrarre al controllo di aziende globali il controllo sulle idee di tutti.

 

Perché le idee sono il lievito del tempo nuovo, quello che stiamo gia vivendo

 

Un mondo dalle mille possibilità. Di mille futuri possibili, di mille nuovi lavori di concetto e di occasioni di crescita economica immateriale. Per questa ragione riteniamo opportuno che, nei tavoli ministeriali del Tesoro, si calcoli, oltre al Pil, anche il Pns: il “Prodotto Nazionale Sapere. E ancora, per riflettere sulle opportunità di questo mondo e sulle sue insidie, si pensi alla moltiplicazione dei canali televisivi, indotta dal change over al digitale terrestre. Oppure al diffondersi pervasivo dei tablet e degli smart phone che vivono di app(licazioni). Agli ebook. O, ancora, alla diffusione di contenuti cross mediali via web.

Sono infinite, a pensarci bene, le possibilità di investire per i privati nelle multiformi applicazioni delle nuove tecnologie e della produzione culturale. Perché anche le imprese hanno compreso che l’unico modo per farcela è dare all’Italia una vocazione “glocale”, che faccia leva sulla ricchezza del patrimonio storico, orografico, architettonico, artistico, naturale, trasformandoli in fattore di conoscenza, competenza e promozione della propria unicità nel mondo.

È tempo di immettere, nel circuito produttivo dei contenuti, un sapere finalmente critico, una leva di giovani talenti che abbia già sorbito e digerito le maria defilippi e i grandi fratelli, come cascami di un tempo andato, morto, sepolto. Superato come la tv generalista del pleistocene, dato che la tv del prossimo futuro è quella delle nicchie e della multi piattaforma.

E la politica, le istituzioni, cosa possono fare per sviluppare queste occasioni, garantendo profitti per le imprese e buoni salari per i lavoratori, arricchimento culturale per i cittadini, rispetto per l’estetica, democrazia nell’accesso alle fonti e libertà creativa agli sviluppatori?

La politica deve, innanzitutto, attenuare tutti i fumi della distrazione di massa, stimolando la creatività e non la piatta comunicazione. Moltiplicando i luoghi di partecipazione collettiva al lavoro creativo, tramite il coworking; offrendo possibilità tramite il microcredito e l’abbassamento delle soglie di accesso al credito bancario. Occorre fare una cosa grande e semplice: creare il Ministero della produzione creativa e accorparvi tutte le deleghe oggi sperse nei mille rivoli di altrettanti ministeri.

Un Ministero della produzione creativa significa uscire dalla trappola della sola conservazione dei beni culturali ai fini della promozione turistica, e introdurre l’idea d’industria creativa. L’insieme, cioè, di originalità, etica, cultura, estetica e identità. La capacita di custodire e, insieme, innovare. Perché la cultura e testimonianza di civiltà. Le industrie culturali e creative italiane dispongono di un potenziale in gran parte inutilizzato di crescita e di occupazione.

Il recente libro verde descrive un’industria della creatività europea capace di contribuire con il 2,6% al Pil della Ue a 27 paesi, occupando circa 6 milioni di persone. Se il mercato del lavoro in Europa registra una contrazione tra il 2002 e il 2004, negli stessi anni, l’occupazione nel settore culturale è cresciuta di un 1,85%. Secondo il Creative Economy Report del 2008 l’industria creativa rimane uno dei principali settori del commercio mondiale in termini di crescita. La bilancia commerciale dell’Ue a 27 paesi, per esempio, nei principali settori legati alla creatività ha registrato nel 2007 un surplus di 30 miliardi di euro. L’industria creativa è pertanto un settore caratterizzato da notevoli prospettive di crescita nel lungo termine. Questo potenziale riguarda tutti i paesi e le regioni del mondo. Ma noi siamo italiani, abbiamo in più la ricchezza di un territorio unico e inimitabile.

Creatività e innovazione sono i soli fattori in grado di consentire a un sistema economico di reggere le sfide della competizione globale. Con l’innovazione si diffondono idee che migliorano l’efficienza dei sistemi produttivi e la funzionalità dei prodotti. Con la creatività si guadagna in bellezza, perché l’atto creativo e il più appagante dei desideri realizzati. E si passa “dal made in Italy allo styled in Italy”.

Ma cosa intendiamo esattamente per industria creativa?

Oltre ai settori tradizionali delle arti (arti dello spettacolo, arti visive, patrimonio culturale), l’industria creativa comprende anche i film, i dvd e i video, la televisione e la radio, i videogiochi, i nuovi media, la musica, i libri e la stampa, il design, la moda, la pubblicità e la comunicazione.

Una riforma sistemica e nuovi investimenti pubblici sono decisivi per restituire all’Italia una visione ambiziosa: occorre, infatti, attenuare l’invasione di prodotti culturali stranieri e favorire la produzione di un’identità multiculturale locale che aiuti anche l’integrazione dei popoli migranti che ci attraversano. Per farlo è necessario parlare un linguaggio dei segni universale e tecnologicamente avanzato aiutando le imprese a rafforzarsi e unirsi in distretti culturali, favorendo la nascita di scene artistiche territoriali, stimolando la mobilità degli artisti e aiutandoli a vivere in residenze artistiche permanenti che fungano da aggregatori di talenti e di pubblico e da incubatori della diversità culturale. Occorre stimolare la concorrenza superando il duopolio televisivo, stimolando l’accesso alle nuove tecnologie, diffondendo la banda larga. Perché l’unico modo per far aumentare i consumi culturali – obiettivo indispensabile per la sinistra contemporanea – e aumentare la base dei suoi produttori e favorire l’accesso popolare alle arti. Molti economisti considerano i costi marginali della cultura bassissimi. E allora, riprendendo la proposta di Walter Santagata, perché non rendere gratuito l’accesso ai musei pubblici? Poi questi venderanno valore aggiunto, come gadget, ristorazione o eventi. Il nostro obiettivo politico mira ad abbattere gli ostacoli che impediscono la libera fruizione di cultura. È indispensabile promuovere l’imprenditorialità diffusa, favorire gli editori puri, la cultura d’impresa e di management allo scopo di aiutare l’emersione di nuovi pubblici per nuove imprese e nuovi contenuti. Va democratizzato l’accesso alle fonti culturali, rendendo diffuse le attività di formazione attraverso la promozione di una collaborazione più intensa, sistematica e ampia tra le arti, le istituzioni accademiche e scientifiche e le iniziative comuni pubblico-privato. L’accesso al finanziamento delle industrie culturali e creative è limitato perché numerose imprese soffrono di cronica sottocapitalizzazione e incontrano seri problemi per ottenere una giusta valutazione dei loro attivi immateriali, ad esempio i diritti d’autore. Se si pensa non solo al cinema – la più popolare delle forme di produzione artistica – è opportuno prevedere strumenti finanziari innovativi, come il capitale di rischio, il microcredito, le garanzie e altri strumenti di condivisione del rischio. Nuovi interessanti modelli finanziari, mirati in modo più specifico alle industrie culturali e creative, sono emersi. I migliori agevolano l’accesso al credito. Altri mettono in contatto investitori e imprese che necessitano di capitale di rischio per crescere, anche per mezzo di forme di finanziamento collettivo (crowdfunding).

Oggi sappiamo che, per il cinema italiano, tassa di scopo e tax credit, rifinanziamento del Fondo Unico dello Spettacolo a valere su una tassa di scopo, il Centro unico nazionale dell’audiovisivo sono la cura indispensabile. Parimenti fondamentale è la riforma radicale della Rai per impedirne la contiguità con la politica e liberarla dall’assillo della competizione con Mediaset. Perché il credito fiscale funziona se esiste un mercato dei diritti veramente libero. E allora diciamolo, una buona volta, che il mercato dei diritti cinetelevisivi va liberato dal giogo del conflitto di interessi e delle rendite di posizione e che vanno rafforzati e aiutati i produttori indipendenti. Le infrastrutture culturali e i servizi di alta tecnologia, le buone condizioni di vita e le buone possibilità d’impiego del tempo libero, il dinamismo delle comunità culturali e la forza delle industrie culturali e creative locali sono sempre più considerati i veri fattori di attrattività per imprese, talenti e pubblico. Il turismo del futuro è in questo snodo: non basta più offrire meravigliose città d’arte per attrarre i grandi flussi turistici internazionali. L’Italia deve essere un posto alla moda.

Cosa lo è più della creatività e dei giovani?

Ciò di cui avremmo bisogno e un capovolgimento completo del modo di intendere la creazione. Per Goffredo Fofi “la cultura con cui dobbiamo quotidianamente confrontarci è una specie di tranquillante o di sonnifero, che ci distrae e ci aiuta a non pensare invece che a pensare, a dimenticarci invece che a trovarci, è un consumo indifferenziato che nei propositi di chi lo propone e amministra deve servire a renderci inattivi invece che attivi. Le istituzioni della cultura e i suoi gestori si preoccupano del successo e del consenso, della superficie e dell’attualità invece che del radicamento, della lunga durata, della qualità e della possibilità di incidere in profondità nell’humus di una popolazione e di un’epoca”.

La creatività che abbiamo in mente richiede il rilancio delle politiche pubbliche e del protagonismo privato. È la creatività degli spiriti liberi e critici, incapaci di sottomettersi ad alcun potere. L’unica in grado di garantire uno sviluppo rapido e sano del Paese.

È un processo possibile, basta iniziarlo. Adesso.

Nichi Vendola

(da C’è un’Italia migliore, Fandango libri, 2011)

La cultura secondo Nichi Vendola