Insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: cultura e lavoro

Giuseppe Di Vittorio : cultura e lavoro

Le generazioni moderne sanno poco o nulla di Giuseppe Di Vittorio, certamente una delle personalità più ricche e affascinanti espresse dal movimento sindacale italiano. Vien da chiedersi fino a che punto la sinistra italiana si sia realmente resa conto della crisi di una vecchia cultura politica e dei suoi aspetti più sconcertanti, come la fatale subalternità corporativa delle lotte sociali, il primato del partito, l’impossibilità per il sindacato di esprimersi come soggetto politico. Di Vittorio con la sua concezione dell’autonomia del sindacato, del sindacato come soggetto politico, ha saputo indicare una prospettiva riformatrice in cui proposta e iniziativa di massa erano unite da un nesso inscindibile, capace di vagliare la validità e la coerenza di ogni singola scelta politica in un processo democratico che sfuggisse alle insidie del trasformismo, del leaderismo e del consenso passivo verso i “capi”. Di Vittorio ha il merito storico di avere avviato la rottura delle liturgie del leninismo, anche grazie a un’acuta percezione della complessità del processo sociale, che spingeva il sindacalismo confederale in una dimensione politica

“Io non sono, non ho mai preteso, né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura. Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana… La cultura non soltanto libera queste masse dai pregiudizi che derivano dall’ignoranza, dai limiti che questa pone all’orizzonte degli uomini: la cultura è anche uno strumento per andare avanti e far andare avanti, progredire e innalzare tutta la società nazionale…

Io sono, in un certo senso, un evaso da quel mondo dove ancora imperano in larga misura l’ignoranza, la superstizione, i pregiudizi, gli apriorismi dogmatici che derivano da questa ignoranza. Io lo conosco quel mondo, profondamente. Ci sono vissuto e so quanto siano grandi gli sforzi che occorrono per tentare di uscirne. Ma in quel mondo, dietro quel muro, vi sono ancora milioni di italiani, milioni di fratelli nostri. Tutte le iniziative, tutte le forme di organizzazione, tutti i tentativi debbono essere fatti per accorrere in aiuto di questi nostri fratelli, per aiutarli a liberarsi da questa ignoranza, perché anch’essi possano provare a sentire le gioie e i tormenti dell’accesso al sapere. Dobbiamo andare fra quelle masse di nostri fratelli, chiamarle, stimolarle alla vita nuova, al sapere, al conoscere, a vedere alto e lontano; dobbiamo andare come un trattore potente su un terreno incolto da secoli per fecondarlo e trarlo a coltura, a vita, a bene della società…”

 Stralcio dal discorso al II congresso della cultura popolare, Bologna 11 gennaio 1953

 

LA DONNA E LA CULTURA
Lo abbiamo sentito parecchie volte: “L’inferiorità delle donne è dimostrata dal fatto che mai scoperto nulla, nono sono mai nati dei Leonardo da Vinci e dei Fermi tra le donne.” Anzi, c’è chi lo dice ancora oggi. Ebbene sì è vero, salvo rarissime eccezioni (ad esempio Marie Curie, Rita Levi Montalcini), nel corso dei secoli non ci sono state molte donne-genio che abbiano inventato o scoperto qualcosa di eccezionale. E come potevano se la loro destinazione “naturale” era fare figli e occuparsi della casa? La cultura, quella che precede ogni possibilità di emergere in campo culturale, non era estesa alle donne bensì ai soli uomini e neppure a tutti. Gli schiavi, ad esempio, non avevano il diritto, e, infatti, neppure tra loro è nata una figura culturalmente importante. Se spostiamo la nostra attenzione su un altro campo, quello sportivo ad esempio, vediamo come le nazioni con un maggior numero di medaglie, alle Olimpiadi, sono quelle che hanno una diffusa pratica sportiva e sin dalla più tenera età. Dal momento in cui le scuole vennero aperte anche alle donne e la cultura divenne un fatto accessibile, sia ai maschi che alle femmine, cominciarono ad emergere alcune importanti figure femminili. Ma questo diritto di parità in campo scolastico è alquanto recente e non possiamo pretendere che se ne vedono i frutti in breve tempo. La stessa educazione che i maschi ricevono, li avvia verso una maggiore qualificazione culturale, mentre permangono ancora, verso le femmine, alcuni  pregiudizi che le scoraggiano. Se è vero che entrambi, maschi e femmine, hanno raggiunto parità di diritti, poiché nessuna legge italiana pone divieto alle femmine nell’affermazione professionale, in realtà solo pochissime donne raggiungono traguardi professionali di prestigio. E, cosa ben più grave, sono ben poche le donne che detengono posti importanti nella vita politica o economica della nazione. La stessa qualificazione professionale tra le operaie è nettamente inferiore a quella dell’uomo, cosicché tocca ad esse occupare quei posti meno qualificanti e meno retribuiti.
Sono questi i frutti di una secolare posizione d’inferiorità della donna? O vi è da parte delle femmine stesse remora profonda ad impegnarsi culturalmente e professionalmente? Probabilmente entrambe le cose. Si registrano casi di donne che, giunte all’apice del successo, mollano tutto e ritornano a dedicarsi al vecchio ruolo di madre e di moglie ma sempre per libera scelta.

Il tempo, le nuove tecnologie e le invenzioni non sono serviti a migliorare le condizioni e l’immagine della donna, nella maggior parte del globo. Le donne sono infelici, insoddisfatte, confuse, maltrattate, discriminate ed emarginate; vivono nella paura, tra violenze ed abusi all’interno di mura “sicure e silenziose”: nelle loro case, nei luoghi di lavoro da parte di familiari o amici. Molti pensano che oggi la donna debba essere quella della TV, della pubblicità, ma allora la schiavitù delle donne non è finita. Il passato ci “regala” donne rinchiuse in case, mute e sofferenti nella loro solitudine e indifferenza da parte della società maschile e oggi le ritroviamo schiave di un’identità che non appartiene loro: molte di loro, infatti, hanno rafforzato involontariamente il maschilismo. La donna è apertura all’accoglienza, entusiasmo per l’amicizia, tolleranza del dolore, costanza negli impegni, capacità di scelte forti e definitive, eccezionalità di intuito. Peccato che la mentalità corrente non sappia leggere tutta questa ricchezza e si fermi ad elencare piuttosto i difetti e i cedimenti. La donna è molto diversa da come viene presentata dalla pubblicità e dai mass-media. È necessario allora che l’uomo e le donne riscoprano le loro radici, i loro ruoli, le loro capacità per poi collaborare reciprocamente per spezzare le catena della violenza e creare quella del rispetto e della dignità. Forse solo allora la donna potrà dire di essere più felice.

LAVORO

‘’L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro…’’; questa, che è una delle più celebri frasi della nostra costituzione, esprime tutto il peso che il sociale e il lavoro hanno nella suddetta Carta; apporto che le fu conferito da una delle personalità più forti e importanti del novecento italiano: Giuseppe Di Vittorio.

Art.3.  “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

Art,37. “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e stesa parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni del lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”

Art.51. “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.”

 

IL LAVORO È UN’EMERGENZA DEMOCRATICA

L’intervista a Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, è stata pubblicata dal quotidiano, “Il Tirreno”.

Rabbia, esasperazione, assenza di prospettive. Con qualche ministro che di fronte a vertenze come l’Alcoa allarga le braccia e dice: Non c’è più niente da fare. “Il sindacato ha reagito, lottato ma dopo quattro anni di crisi tremenda, in primo luogo occupazionale, servono risultati”, commenta Fulvio Fammoni, sino a pochi mesi fa membro della segreteria nazionale della CGIL e ora preidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
Rigira tra le mani il rapporto sull’occupazione appena sfornato dall’Ires, l’ufficio studi della confederazione, che disegna un’Italia in ginocchio con 4 miliardi e mezzo di cittadini dentro l’area della “sofferenza occupazionale”.

Che cosa significa?

“Che ai due milioni e settecentomila disoccupati censiti dall’Istat bisogna aggiungere un milione e settecentomila cittadini definiti scoraggiati e cassa integrati. Questi dati sono il frutto di scelte antiche e recenti”.

Quali scelte sbagliate?

“E’ evidente che il meccanismo scelto per ridurre il deficit ha presentato il conto al lavoro e ai lavoratori.”

Monti dice che ha salvato l’Italia dal baratro.

“Per far tornare i conti ha però operato una politica di tagli al bilancio che si sono scaricati sull’economia reale. Le scelte del governo hanno avuto un effetto depressivo sull’economia e si sono scaricate sui lavoratori.
I dati sull’occupazione sono inoppugnabili.”

L’Italia va peggio degli altri?

“Peggio rispetto al tasso di disoccupazione europeo. Inoltre un terzo dei nuovi disoccupati nell’Ue sono italiani. Il governo non sembra reagire a quest’emergenza, l’Italia scende sempre più in basso”.

Le riforme fatte non funzionano?

“Far pagare tutto al lavoro e scaricare la crisi sui lavoratori non solo ha effetto depressivo ma si ripercuote sui consumi e la produzione. Che cosa fa quell’area enorme di disoccupati, inoccupati, scoraggiati e cassa integrati? Che cosa può consumare? Noi siamo un Paese manifatturiero che utilizza il 70% del suo prodotto nel mercato interno. Chi compra in queste condizioni di perdita di lavoro?”

Eppure la riforma Fornero intendeva togliere lacci, liberare il lavoro…

“E invece la disoccupazione giovanile non è mai stata così devastante. Fornero e il governo avevano promesso che con la riforma sarebbe cambiato il sistema di vita degli italiani. Non so se gli italiani siano contenti di come stanno vivendo”.

Che cosa fanno invece le imprese?

“Di fronte alla crisi operano comprimendo i costi del lavoro: un lavoro meno pagato, pensano sia meglio. Sono miopi, perché in Italia abbiamo un enorme addensamento di qualifiche medio basse che, quando la crisi sarà attenuata, faranno fatica a ricollocarsi. E con la crisi c’è stata una compressione dei diritti, una maggiore ricattabilità”.

Monti dice che le tasse non può abbassarle sino al pareggio di bilancio.

“Un grave errore. Oggi intervenire sul fisco non solo è una questione di giustizia ma anche un elemento produttivo di cresita. Il pareggio di bilancio con il Pil in calo o stagnante non potrà essere conseguito.”

Il governo promette crescita…

“Parole, piani fumosi e dilatati nel tempo. C’è bisogno di lavoro, subito. E’ un’emergenza democratica”.

Insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: cultura e lavoro

Il programma di Barack Obama

GUERRA E PACE

«Quattro anni fa, ho promesso di porre fine alla guerra in Iraq. L’abbiamo fatto. Ho promesso grande concentrazione nella lotta ai terroristi che ci hanno attaccato l’11/9. L’abbiamo fatto. Abbiamo smussato lo slancio dei talebani in Afghanistan, e nel 2014, la nostra più lunga guerra sarà finita. Le trame terroristiche devono essere interrotte. La crisi dell’Europa deve essere contenuta. Il nostro impegno per la sicurezza di Israele non deve vacillare, e il governo iraniano deve affrontare un mondo unito contro le sue ambizioni nucleari».

INDUSTRIA ED ECONOMIA
«Nell’industria potremo avere un milione di nuovi posti di lavoro entro la fine del 2016 ed esportazioni raddoppiate per la fine del 2014. Dopo un decennio di declino, questo paese ha creato oltre mezzo milione di posti di lavoro nella produzione negli ultimi due anni e mezzo».

TASSE E DEFICIT
«Ho tagliato le tasse a coloro che ne avevano bisogno: famiglie della classe media, piccole imprese. Non credo che un altro giro di agevolazioni fiscali per milionari porterà nuovi posti di lavoro o pagherà il nostro deficit. Mi rifiuto di chiedere agli studenti di pagare di più per il college».

ISTRUZIONE

«Si può scegliere un futuro in cui sempre più americani abbiano la possibilità di acquisire le competenze di cui hanno bisogno per competere. Non importa quanti anni e quanti soldi abbiano».

ENERGIA E SICUREZZA
«A differenza di mio avversario, non lascerò scrivere alle compagnie petrolifere il piano energetico di questo paese o mettere in pericolo le nostre coste. Offriamo un percorso migliore, un futuro in cui si continui a investire in eolico e solare e carbone pulito».

IL FUTURO
«I nostri problemi possono risolversi, le sfide possono essere lanciate. Vi guiderò lungo un cammino tortuoso, ma che conduce in un posto migliore. Non pensiamo che il governo possa risolvere tutti i nostri problemi. Ma non credo che il governo sia la fonte di tutti i nostri problemi. Nessun partito ha il monopolio della saggezza. Nessuna democrazia funziona senza compromessi».

IN AMERICA SI PUÒ
«Noi crediamo che un bambino sfuggito alla povertà da grande possa, con una borsa di studio, diventare il fondatore del prossimo Google, o lo scienziato che cura il cancro, o il presidente degli Stati Uniti. È in nostro potere di dargli questa possibilità».

GLI IMMIGRATI
«È giusto che un giovane immigrato cresciuto qui, che qui ha promesso fedeltà alla nostra bandiera non debba essere espulso dall’unico paese che abbia mai chiamato a casa».

GLI SLOGAN
«Nel 2008 dissi ”Sì, possiamo”, oggi dico ”Sì, possiamo ma ci vuole tempo”».

IL LIBRO DI FIDEL CASTRO

«Obama e l’Impero».

Il programma di Barack Obama

Su “I libri” di Antonio Gramsci

Si insiste molto sul fatto che sia aumentato il numero dei libri pubblicati. L’Istituto italiano del Libro comunica che la media annuale del decennio 1908-1918 è stata esattamente di 7.300. I calcoli fatti per il 1929 (i piú recenti) dànno la cifra di 17.718 (libri ed opuscoli; esclusi quelli della Città del Vaticano, di San Marino, delle colonie e delle terre di lingua italiana non facenti parte del Regno). Pubblicazioni polemiche e quindi tendenziose. Bisognerebbe vedere: 1) se le cifre sono omogenee, cioè se si calcola oggi come nel passato, ossia se non è cambiato il tipo dell’unità editoriale base; 2) bisogna tener conto che nel passato la statistica libraria era molto approssimativa e incerta (ciò si osserva per tutte le statistiche, per es. quella della raccolta del grano; ma è specialmente vero per i libri: si può dire che oggi non solo è mutato il tipo di unità calcolata, ma niente sfugge all’accertamento statistico); 3) è da vedere se e come è mutata la composizione organica del complesso librario: è certo che si sono moltiplicate le case editrici cattoliche, per esempio, e quindi la pubblicazione di opericciuole senza nessuna importanza culturale (cosí si sono moltiplicate le edizioni scolastiche cattoliche ecc.). In questo calcolo occorrerebbe tener conto delle tirature, e ciò specialmente per i giornali e le riviste.

Si legge meno o piú? E chi legge meno o piú? Si sta formando una «classe media colta» piú numerosa che in passato, che legge di piú, mentre le classi popolari leggono molto meno; ciò appare dal rapporto tra libri, riviste e giornali. I giornali sono diminuiti di numero e stampano meno copie; si leggono piú riviste e libri (cioè ci sono piú lettori di libri e riviste). Cfr. tra Italia e altri paesi nei modi di fare la statistica libraria e nella classificazione per gruppi di ciò che si pubblica.

pubblicato postumo in “Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura” (1949)

Antonio Gramsci

Uomo politico e pensatore (Ales, Cagliari, 1891 – Roma 1937). Membro del PSI e fondatore de L’Ordine Nuovo (1919), fece parte dell’esecutivo dell’Internazionale comunista (1923). Divenuto segretario del Partito comunista d’Italia (PCd’I) e deputato (1924), affrontò la questione meridionale, indirizzando la politica dei comunisti verso l’unione con i socialisti massimalisti. Nel 1924 fondò il quotidiano politicol’Unità, organo del PCd’I. Per la sua attività e per le sue idee fu condannato a venti anni di carcere (1928). Il suo pensiero politico, espresso anche nei numerosi scritti, si articolò in una rilettura globale dei fenomeni sociali e politici internazionali dal Risorgimento in poi, che lo portò a criticare per la prima volta lo stalinismo, a teorizzare il passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”, a formulare i concetti di “egemonia” e di “rivoluzione passiva”. Per la statura del suo impegno intellettuale e politico è considerato una tra le maggiori figure della prima metà del Novecento italiano.

Su “I libri” di Antonio Gramsci

Come la CIA ha inventato bugie sulla morte di Che Guevara

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Ernesto Che Guevara è stato il secondo in comando nella rivoluzione cubana di Fidel Castro. Lasciò Cuba nel 1965 prima per il Congo e la Bolivia, dove organizzò un movimento di guerriglia contro l’esercito governativo i cui ufficiali erano addestrati dagli Stati Uniti d’America che aveva rovesciato il governo precedente in un colpo di stato nel 1964. La spedizione in Bolivia fu per molti versi un test; c’era il timore che Cuba avrebbe potuto esportare la rivoluzione in altri paesi dell’America Latina, e la sua importanza fu chiaramente seguita non solo dai cubani, ma anche dagli americani. Il governo degli Stati Uniti fu coinvolto quando intuì perché il Che fosse andato negli altri Paesi latinoamericani e che cosa stesse facendo. Quando Che scomparve da Cuba, alcuni nella CIA era ovviamente contenti, come dimostra un documento del maggio 1967 redatto da Walt Rostow, assistente speciale per gli affari di sicurezza nazionale, al presidente Johnson. Rostow confermò che Che operava in Bolivia e non era morto, come la comunità di intelligence, con il passare del tempo, era stata più e più volte incline a credere. Il governo degli Stati Uniti versò risorse in Bolivia per garantire che il governo potesse sconfiggere i guerriglieri. La CIA assunse la raccolta di informazioni e l’esercito degli Stati Uniti fu responsabile della formazione dell’esercito, chiaramente con un certo successo. L’esercito americano aveva così galvanizzato gli sforzi dei demoralizzati soldati boliviani che in una nota dell’agosto 1967 riferirono con orgoglio che “per la prima volta, dopo essere stati attaccati, ora non abbandonavano più le armi e contrattaccavano”.

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I frutti di questo corposo aiuto militare fu chiaro il 9 ottobre 1967: Che Guevara fu ucciso. La prima versione comunicata dal governo degli Stati Uniti fu che il Che era stato ucciso in battaglia combattendo con l’esercito boliviano.  La prima versione ufficiale di come era morto Che fu contraddetta da una seconda versione ufficiale, senza che nessuno ammettesse che la prima versione era evidentemente sbagliata. Questa seconda storia era che il Che era stato ucciso il giorno successivo su ordine del presidente boliviano, nonostante la determinazione degli Stati Uniti di tenerlo in vita. Il governo degli Stati Uniti ha sempre saputo che la loro prima versione ufficiale non era vera. Fu detto al Segretario di Stato a mezzo telegramma in data 8 ottobre, che il Che era stato ferito in battaglia con l’esercito boliviano, ma che era stato catturato vivo. Se il governo degli Stati Uniti mise fuori la versione della falsa notizia della morte del Che, non è improbabile che anche la versione successiva non poteva che essere falsa; ci sono dei buchi notevoli nella seconda versione ufficiale. In primo luogo, la CIA aveva un agente, Felix Rodriguez, che accompagnava la divisione che catturò il Che, e fu lui che trasmise le istruzioni del comando boliviano. Rodriguez aveva apparentemente ricevuto ordini dai suoi superiori della CIA che il Che doveva essere mantenuto in vita a tutti i costi, ordini che fu misteriosamente in grado di revocare senza alcun costo, poiché successivamente Rodriguez si avviò a una lunga carriera nell’Agenzia. In secondo luogo, vi è la testimonianza dell’ex capo della CIA in Bolivia che in precedenza aveva chiesto e ottenuto una garanzia personale da parte del presidente boliviano che il Che sarebbe stato ucciso se catturato. La ‘semi- versione ufficiale cubana ‘(così chiamata da scrittori che non sono d’accordo con essa) è che l’ambasciatore statunitense in Bolivia, Douglas Henderson, andò a trovare il presidente boliviano l’8 ottobre, dopo il Che era stato catturato, e lo istruì perché il Che fosse immediatamente ucciso. C’è un caso circostanziale. Gli Stati Uniti erano interessati a assassinare Che e la storia è ben nota: egli era stato incluso nella lista di omicidi nella quale compariva anche Castro già dai primi anni ’60. Il tentativo di ammazzare Che non poté considerarsi concluso solo perché il Che aveva lasciato Cuba.. Uno dei documenti è una strana richiesta fatta dal FBI nel 1964 per avere la copia delle impronte digitali del Che. Come fanno notare gli autori, questo solleva molti interrogativi sul perché l’FBI aveva scoperto l’esigenza di archiviare le impronte digitali pensando che il Che ne avrebbe potuto avere di nuove. Si sospettava che il Che avrebbe cercato di intrufolarsi negli Stati Uniti, ma altrettanto plausibile è la possibilità che essi erano a conoscenza di un nuovo piano per assassinarlo e avevano bisogno di impronte digitali per confermare di aver preso l’uomo giusto. Nel 1967, l’identità del Che fu effettivamente confermata da un confronto delle impronte digitali del suo cadavere con le copie archiviate dall’FBI. Walt Rostow scrisse al presidente Johnson che il Che era stato ucciso e diceva che era una cosa stupida perché il Che non sarebbe dovuto essere ucciso. Tuttavia elencò i motivi per cui la morte del Che era comunque una cosa decisamente buona: avrebbe scoraggiato i guerriglieri in America Latina , soprattutto alla luce della strategia degli Stati Uniti nell’aiutare i paesi in rivolta. Una nota dell’intelligence del Dipartimento di Stato del 12 ottobre 1967 indicò i vantaggi di avere ulteriori morti: sarebbe stato un duro colpo per Castro e per la sua idea di diffondere la rivoluzione da Cuba al continente in America Latina.  Si può dire è che se i boliviani hanno agito di propria iniziativa, lo hanno fatto nella consapevolezza che essi non avrebbero sfidato i desideri dei loro padroni statunitensi, ma avrebbero fatto loro un enorme favore. È da più di quaranta anni che Che Guevara fu ucciso, ma le domande che circondano la sua morte sono oggi di interesse storico. L’assassinio degli avversari è una tattica con una lunga storia nella politica estera degli Stati Uniti. La morte di Osama Bin Laden è l’esempio ovviamente più recente, ma non è stato un caso isolato. Dall’inizio della ‘guerra al terrorismo’ nel 2001, gli Stati Uniti ha utilizzato droni per eliminare dei presunti terroristi in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Libia, Somalia e nello Yemen, per elencare solo quei luoghi che sono pubblicamente noti. Mentre gli attacchi con i droni potrebbero essere una tattica post-9/11, l’uso dell’assassinio non lo è. A questo proposito, la guerra al terrorismo con omicidi è una continuazione di omicidi risalenti alla fine della Seconda guerra mondiale. C’è una lista di almeno sedici omicidi tentati o commessi dagli Stati Uniti dal 1950 al 1960. Questo elenco è una dimostrazione di come i successivi governi degli Stati Uniti non sono riusciti a pensare a procedimenti giudiziari piuttosto che a omicidi. È da notare tuttavia che l’amministrazione Johnson sentì la necessità di nascondere il suo coinvolgimento nella morte di Che Guevara. Che era, dopo tutto, un rivoluzionario impegnato nella lotta armata e che presumibilmente, in base alla sua ideologia, avrebbe meritato la pena di morte. Tuttavia, nel 1967, era chiaramente ancora necessario per il governo la necessità di nascondere ciò che era fatto al di fuori della legge. La storia di come Che Guevara sia morto, e come il governo degli Stati Uniti si è sentito di dover mentire, è un promemoria di come la guerra al terrorismo è una guerra contro lo stato di diritto.

Considerazioni di Michael Ratner e Michael Steven Smith nel libro Chi ha ucciso Che? Come la CIA l’ha fatta franca con l’omicidio (OR Books 2011)

Come la CIA ha inventato bugie sulla morte di Che Guevara