Leggere meno americano e più orientale non nuoce alla salute

Murakami sonno apertura

Un buon libro può superare molte barriere nella sua ricerca di trovare un pubblico, ma l’Oceano Pacifico, a quanto pare, è uno sbarramento troppo forte. Questo è il caso della letteratura giapponese, ma anche della cinese e di quella coreana che sfidano le differenze di lingua, cultura, e di politica per raggiungere i lettori in tutta l’Asia, ma devono ancora trovare un approdo stabile e duraturo in Europa, fatta eccezione della Francia dove hanno diversi seguaci.

Gli esperti indicano che l’apertura mentale dei giovani è un fattore di risposta alla domanda del perché, nonostante ci siano degli autori orientali che hanno un buon seguito da noi, come Murakami Haruki, il tedoforo degli autori giapponesi in Occidente e, ma solo in parte, di Yoshimoto Banana, non c’è traccia nelle classifiche di autori dell’Estremo Oriente e non c’è segno di pubblicazioni di un numero consistente di nuovi autori asiatici. Nonostante le tradizionali rivalità tra Corea, Giappone e Cina, i giovani di quei Paesi hanno superato le distanze ed è interessante scoprire come, per esempio, i giovani sud-coreani vogliano capire meglio gli stili di vita e la cultura giapponesi leggendo moltissima narrativa proveniente dal Giappone, lasciando comprendere come la letteratura sia separata dalle dispute politiche tra il Giappone e la Corea del Sud. Anche in Cina, i cinesi più giovani si identificano con il cuore della società giapponese che i loro autori descrivono. Grazie a questo, centinaia di romanzi giapponesi sono pubblicati annualmente in Corea del Sud, e ancora di più lo sono in Cina.

Gli Stati Uniti e l’Europa hanno anche diversi giovani che leggono autori giapponesi e cinesi, ma il numero è sensibilmente più basso. Questo solleva una questione: se i cittadini cinesi e coreani possono guardare oltre le loro differenze per leggere romanzi giapponesi, qual è il freno che impedisce una reale diffusione della cultura dell’Estremo Oriente tramite la letteratura nei paesi occidentali?

Gli Stati Uniti fanno un caso a sé perché notoriamente solo il 3% dei libri pubblicati sono di autori che non parlano la lingua inglese. Tuttavia, non è del tutto colpa del lettore. La gente legge la letteratura straniera quando è disponibile, come il caso già citato di  Murakami Haruki, ma la realtà è che vi è la quasi totale volontà, da parte degli editori più grandi, di non tradurre la letteratura, determinando anche nel lettore una certa diffidenza nel leggere quel po’ di letteratura in traduzione in circolazione.

Ci sono anche delle difficoltà che gli editori devono affrontare nella pubblicazione di letteratura straniera e di certo non sono sempre facili. Gli americani di lingua inglese non sanno rinunciare ai loro scrittori, benché la tradizione e la qualità culturale americana non possa essere paragonabile a quella europea (in particolare alla russa e a quello dell’Inghilterra). Tuttavia, è un peccato rinunciare a tanti libri incredibili di scrittori di lingua non inglese che sono scritti in altre parti del mondo. A maggior ragione, anche in Europa è imbarazzante che la Corea del Sud, un paese che ha una tradizione culturale immensa, come il Giappone e la Cina, abbia solo una sparuta rappresentanza. Non dimentichiamo che diversi romanzi di famosi e apprezzati scrittori coreani e giapponesi sono stati tradotti dal francese o dall’inglese, con il risultato di confezionare dei prodotti che non corrispondono alla lingua originale, impedendo di trasmettere al lettore occidentale il nocciolo stesso della cultura.

Purtroppo, le fortune crescenti dei libri provenienti dagli Stati Uniti coincidono all’estero con l’ascesa della cultura pop americana in generale, ma devono anche essere in parte attribuite a una forte imposizione della narrativa commerciale (e le competenze editoriali si sono evolute per servire questi libri) che, fino a poco tempo fa, semplicemente non esistevano in molti altri paesi. È così per la narrativa, è così per il cinema: dagli Stati Uniti arriva qualsiasi cosa purché sia legato a un successo commerciale. Qualsiasi libro potrebbe essere migliore o peggiore nel complesso, ma c’è un certo livello di approfondimento culturale, di introspezione, di spessore linguistico da cui non si può prescindere che spesso nella narrativa americana non è rispettato. Le letterature dei paesi più lontani che hanno tratto la linfa da culture diverse da quella europea potrebbero rendere migliore la vita non solo dei lettori ma della nostra frenetica società occidentale.

Leggere meno americano e più orientale non nuoce alla salute

E’ questo il futuro della punteggiatura!?

2044877658La punteggiatura suscita forti sentimenti. La gente si interessa alla punteggiatura non solo perché chiarisce il significato, ma anche perché il suo disuso sembra riflettere un più ampio declino sociale. Mentre le grandi battaglie sociali sembrano non trattabili, le piccole battaglie per l’uso di un apostrofo o di un punto e virgola appaiono come già perse.

Eppure, lo stato di questo e di altri amati segni è stato a lungo precario. La storia della punteggiatura è un viavai.

Non tutti i primi manoscritti avevano la punteggiatura, e quelli del periodo medievale suggeriscono un’innovazione casuale, con più di trenta segni di punteggiatura diversi. Il repertorio moderno della punteggiatura è emerso dai manoscritti stampati nei secoli XV e XVI che si sono sforzati di limitare questo miscellanea.

Molti segni di punteggiatura sono meno venerabili di quanto si possa immaginare. Le parentesi sono state utilizzate nel 1500, essendo state usate dagli scrittori inglesi e pubblicate in libri italiani. Le virgole non sono state impiegate fino al XVI secolo; in primi libri stampati in inglese si vede una barra (un’asta del tipo /), che è sostituita dalla virgola intorno al 1520.

Altri segni di punteggiatura hanno avuto più breve successo. Fu utilizzato un segno goffo che serviva a indicare un rinvio, noto come piede di mosca (¶); inizialmente era una C con una barra disegnata attraverso di esso. Simile nel suo effetto è stato uno dei più antichi simboli di punteggiatura, una foglia di edera orizzontale chiamata edera. Appare nei manoscritti dell’VIII secolo, e separa il testo dal commento, e dopo un periodo di moda ha fatto un inaspettato ritorno nei primi libri stampati. Poi scomparve del tutto.

Un altro segno, ora sconosciuto, è il punto d’ironie (⸮). Un segno di domanda al contrario comparso in testi stampati del XVI secolo proposto da Henry Denham per segnalare le domande retoriche, e ripreso nel 1899 dal poeta francese Alcanter de Brahm. Più di recente, la difficoltà di rilevare l’ironia e il sarcasmo nelle comunicazioni elettroniche ha spinto gli utenti a utilizzarlo spesso come emoticon per indicare messaggi sarcastici ma le probabilità che faccia ritorno sono flebili.

In realtà, la cultura di Internet in generale favorisce uno stile più informale e più leggero della punteggiatura. È vero, le emoticon sono nate per trasmettere sfumature di umore e di tono. Inoltre, la tipizzazione rende facile amplificare la punteggiatura: scrivere venti punti esclamativi su una sola riga, oppure utilizzare più punti interrogativi per significare l’incredulità esagerata. Ma, nel complesso, la punteggiatura è irrinunciabile.

Come potrebbe evolvere oggi la punteggiatura? La visione distopica è che svanirà. Questo sembrerebbe concepibile, anche se non improbabile. Già adesso possiamo vedere qualche avvisaglia di cambiamento: l’austerità editoriale con virgole, la preferenza redazionale per il punto sopra tutti gli altri segni, e il gusto per la chiarezza visiva.

Anche se non è raro sentire richieste di nuova punteggiatura, i segni proposti tendono a cannibalizzare quelle esistenti. In tale ottica, si può aver incontrato il punto esclarrogativo (‽), l’unione di due diversi simboli, il punto interrogativo e il punto esclamativo, scritti l’uno nell’altro e con il punto in comune, che indica l’intonazione tipica della domanda e della sorpresa.

Tali segni sono sintomi di una crescente tendenza a usare la punteggiatura in chiave retorica piuttosto che grammaticale. Invece di presentare relazioni sintattiche e logiche, la punteggiatura riproduce i modelli di comunicazione orale.

Una manifestazione di questo è l’anticipo della lineetta. Imita la frastagliata urgenza della conversazione, in cui cambiamo direzione bruscamente e con fermezza. Le lineette divennero comuni solo nel XVIII secolo. Il loro appello è visivo, la loro forma drammatica. Questo è quello che uno stile moderno prolisso di scrittura sembra richiedere.

Al contrario, l’uso del punto e virgola sta diminuendo. Anche se i due punti erano comuni fin dal XIV secolo, il punto e virgola era raro nei libri inglesi prima del XVII secolo. Il segno è sempre stato considerato come un utile ibrido — un separatore che è anche un raccordo — ma è un gingillo amato da persone che vogliono dimostrare che sono andati alla giusta scuola.

Più sorprendente è l’eclissi del trattino. Tradizionalmente, è stato utilizzato per collegare due metà di un sostantivo composto e ha suggerito che un nuovo neologismo è in prova. Ma ora il sostantivo è diviso (ex dipendente) o scritto senza trattino (nordovest, superuomo). Può essere che l’ultimo avamposto del trattino sarà in un’emoticon, dove potrebbe svolgere un ruolo di primo piano.

I grafici, che prediligono un’estetica ordinata, odiano i trattini e sono diventati, anche in parte, responsabili della scomparsa dell’apostrofo. Questo piccolo scarabocchio comparve per prima volta in un testo inglese nel 1559. Il suo utilizzo non è mai stato completamente stabile, e oggi la confusione conduce alla sovracompensazione che vediamo in quei segni scritti a mano. L’alternativa non è quella di non utilizzare per niente gli apostrofi — un atto di pragmatismo facilmente scambiato per ignoranza.

I difensori dell’apostrofo insistono che minimizza l’ambiguità, ma ci sono situazioni in cui la sua omissione può portare a reali malintesi.

L’apostrofo è essenzialmente un dispositivo utile per l’occhio, non per l’orecchio. Forse, in futuro, gli apostrofi saranno scomparsi o ridotti a piccoli vezzi di “gioielleria” ortografica.

 

E’ questo il futuro della punteggiatura!?

Cosa non va nel Premio Nobel per la letteratura

nobelQuest’anno il fortunato premiato è l’autrice bielorussa Svjatlana Aleksievič, una giornalista investigativa i cui libri sulle donne, su Cernobyl e sulla guerra sovietico-afghana hanno composto, nelle sue parole, una “storia dei sentimenti umani” nella Russia post-sovietica. Gli scrittori Murakami Haruki, Ngugi Wa Thiongo’o, Jon Fosse, Joyce Carol Oates e Philip Roth, considerati tra i più grandi narratori mondiali, non hanno raggiunto la vetta. Nel 2011 il poeta svedese Tomas Tranströmer vinse il premio Nobel benché nessuno lo avesse mai letto e, a distanza di alcuni anni dal Nobel, non abbia lasciato traccia di sé. L’anno scorso vinse il francese Patrick Modiano, autore di una serie incredibile di romanzi noir che fondono mistero e surrealismo. È come se Camus, Chandler e Borges avessero collaborato a dare una forma ibrida ma anche improbabile alle sue storie, spesso raccapriccianti, di protagonisti tendenti alla parodia, sullo stile di vecchi film di serie B e pulp fiction, al servizio di qualcosa di molto più onirico e inquietante.

Chi sono le diciotto persone che decidono chi sono i più grandi romanzieri e / o poeti dell’anno sulla scena internazionale? Il comitato invita decine di esperti letterari di decine di paesi che sono pagati per scrivere alcune riflessioni sui possibili vincitori. Tali esperti dovrebbero rimanere anonimi, ma inevitabilmente alcuni si sono rivelati essere conoscenti di coloro che li hanno nominati.

Tutti i membri sono svedesi e la maggior parte di loro è professore nelle università svedesi. Nessuna donna è stata mai nominata alla presidenza. Solo un membro è nato dopo il 1960. Ciò è in parte dovuto al fatto che non è possibile dare le dimissioni dall’Accademia. Si tratta di una condanna a vita. Quindi c’è raramente nuova linfa. Negli ultimi anni, tuttavia, due membri si sono rifiutati di continuare a collaborare a causa di disaccordi, uno per la fatwa contro Salman Rushdie e  un altro contro l’assegnazione del premio a Elfriede Jelinek, giudicata “caotica e pornografica”.

Si suppone che un centinaio di scrittori sono nominati ogni anno. Stiamo parlando di poesie e romanzi che arrivano da tutto il mondo, molti intensamente impegnati con le culture e le tradizioni letterarie di cui i membri dell’Accademia Svedese comprensibilmente sanno poco. Quindi è un gruppo eterogeneo di libri che questi professori devono digerire e confrontare ogni anno.

L’estetica di un’opera è la più difficile da apprezzare e richiede una sensibilità speciale, oltre a una lunga riflessione, mentre il carattere politico è più semplice e rapidamente afferrato, per cui un accademico inizia a identificare quelle aree del mondo che hanno attirato l’attenzione del pubblico, forse a causa di disordini politici o abusi dei diritti umani. In questo campo troviamo quegli autori che hanno già avuto una ribalta di tutto rispetto e forse importanti premi nelle comunità letteraria di questi paesi e che sono apertamente impegnati. È così che il premio Nobel è concesso a dissidenti del blocco dell’Est, o a scrittori sudamericani contro la dittatura, o a scrittori sudafricani contro l’apartheid, o, più sorprendentemente, all’antiberlusconiano commediografo Dario Fo la cui vittoria causato qualche perplessità anche in Italia. Uno dei più grandi poeti italiani, Mario Luzi, è morto senza aver ricevuto un premio che avrebbe senz’altro meritato. Italo Calvino, lo scrittore italiano più conosciuto e tradotto nel mondo, oltre che il più letto, la cui qualità di Italo Calvino è indiscussa per tutti non è stato preso sul serio dall’Accademia svedese del Nobel. Forse perché troppo bravo e troppo italiano. Il recente premio a Svjatlana Aleksievič va nella direzione di “scandalizzare” l’opinione pubblica, concedendo il premio a un outsider che presto dimenticheremo. La sua vittoria purtroppo spiazzerà dalla corsa al premio bel più stimati e letti scrittori russi, come Fazil’ Iskander, Sasha Sokolov e il più antiputiniano romanziere Vladimir Sorokin.

Qui di seguito vi elenco alcuni ultradegni scrittori del Nobel che non lo hanno vinto:

Henry James, 1843-1916 

Perché è grande: Negli ultimi decenni del XIX secolo, Henry James scrisse più di venti romanzi, molti dei quali sono opere brillanti della letteratura in lingua inglese . I suoi libri Ritratto di signora (1881), I bostoniani (1886), Gli ambasciatori (1903) e La coppa d’oro (1904) sono tra i suoi migliori. Ha scritto anche romanzi come Daisy Miller e l’inquietante e meraviglioso Giro di vite. James ha scritto decine di racconti e diverse opere teatrali. I suoi racconti hanno trame intricate, personaggi enigmatici e temi sottili. Non per niente i suoi contemporanei lo soprannominavano “The Master”.

Perché non ha vinto: questo è facile. Nei primi anni del Premio Nobel, il comitato di selezione era puntiglioso sull’assegnazione del premio per gli autori che avevano scritto opere “idealiste”, una delle clausole di Alfred Nobel. Rudyard Kipling, per esempio, vinse nel 1907. Inoltre, i primi vincitori erano quasi sempre europei e di solito svedesi. Questo fino al 1923 quando un vero grande scrittore in lingua inglese vinse il Premio Nobel: William Butler Yeats.

Virginia Woolf, 1882-1941 

Perché lei è grande: La leonessa Virginia Woolf scrisse intensi e bellissimi romanzi che esplorano complessi personaggi (come Clarissa Dalloway e Lily Briscoe di Gita al faro) e luoghi per eccellenza. Nel libro La signora Dalloway, per esempio, la rappresentazione meticolosa di Woolf del post Prima guerra mondiale a Londra è un tour-de-force. Nonostante la prosa pittorica e poetica di Woolf, la sua visione è incoraggiante, con durezza realistica. Anche se signorile in superficie, i mondi della Woolf sono grezzi, ingiusti e pieni di delusioni. Ha scritto in un moderno stile “flusso di coscienza”, che si adatta alla natura introspettiva, stratificata e ambigua delle sue storie.

Perché non ha vinto: Woolf era troppo sperimentale, troppo intellettuale, e troppo deprimente per gli individui del comitato del Nobel, che, diciamocelo, vivevano in un grazioso mondo prebellico in Europa. Inoltre, anche se è stata riconosciuta come un maestro dai suoi colleghi letterari, Woolf non fu una scrittrice popolare in vita. È istruttivo il fatto che Pearl Buck vince il premio nel 1938, una scelta debole che i critici del Nobel ancora non digeriscono.

James Joyce, 1882-1941 

Perché è grande: Alcuni sostengono che Ulisse sia il più grande romanzo mai scritto, in qualsiasi lingua. Strutturato in parallelo sull’Odissea di Omero, Ulisse è di grande portata, filosofico, d’avanguardia, letterariamente allusivo, divertente e oscuro. Gli amanti della lingua inglese ammirano il modo in cui Joyce sposta il suo stile e il tono di capitolo in capitolo. Solo per questo lavoro da solo James Joyce avrebbe meritato il premio Nobel

Perché non ha vinto: In poche parole, Ulisse è stata ritenuto osceno a causa dell’episodio “Nausicaa” in cui l’eroe del libro, Leopold Bloom, si masturba su una panchina mentre guarda una ragazza. Joyce finì il libro nel 1918, ma fu vietato negli Stati Uniti fino al 1930. Il comitato Nobel probabilmente non considerò mai Joyce un concorrente.

Robert Frost, 1874-1963 

Perché è grande: È difficile sopravvalutare il talento di Robert Frost. Frost è stato profondo, prolifico, e ancora accessibile. Ha prodotto decine di raccolte di poesie, ha vinto quattro premi Pulitzer. Sì, ha scritto “The Road Not Taken” e “The Wall Mending”, ma ha anche scritto poesie molto più profonde come “Out, out”, di un ragazzo che perde la sua mano e la sua vita a causa di una motosega, e “Carpe Diem”, che predice l’infelicità dei bambini piccoli. A differenza dei suoi contemporanei del XX secolo che hanno scritto con verso libero, Frost ha scritto un verso sciolto che, pur non avendo una rima, è tuttavia conforme al pentametro giambico.

Perché non ha vinto: Si tratta di un puzzle. Frost era forse troppo prolifico. Molti premi Nobel hanno opere di modeste dimensioni. Forse era troppo noto. Certamente era troppo americano. Inoltre, a causa dei suoi versi misurati, il comitato Nobel può aver giudicato Frost di vecchio stile. È interessante notare che, anche se molto onorato in vita, i biografi raccontano che l’autore fu “ossessionato” dalla vittoria del Nobel. Forse il premio, pubblicamente invocato dai lettori e dalla critica, spiazzò il comitato del Nobel. Quel premio, che nel 1962 avrebbe dovuto andare a Robert Frost, fu regalato a John Steinbeck, un mediocre talento in confronto.

John Updike, 1932-2009 

Perché è grande: Updike ha scritto più di venti romanzi e pubblicato almeno dodici libri di racconti. Updike era troppo prolifico, scrivendo, tra molte altre cose, quasi un romanzo all’anno. Per anni Updike ha scritto recensioni astute ed erudite di arte e letteratura per il New Yorker, The New York Review of Books, e altre riviste di cultura. Come romanziere, Updike è più noto per aver scritto della classe media degli uomini americani. Se le donne vogliono sapere come gli uomini la pensano di sesso, morte, religione, delle loro mogli e ragazze, dei figli, sono consigliabili le letture della cosiddetta “serie del Coniglio”.

Perché non ha vinto: Era troppo bianco, troppo americano, e troppo maschile. Spesso, i romanzi di Updike sono sessualmente espliciti, che probabilmente hanno offeso il puritano comitato del Nobel.

Tra i Nobel mancati e attualmente viventi (il premio non può essere concesso alla memoria), solo tra gli americani, ci sono Phillip Roth, Joyce Carol Oates, Don DeLillo e Thomas Pynchon.

Nessuno di loro, prevedo, vincerà il premio Nobel.

Il gruppo dei grandi delusi, dati come probabili vincitori del Nobel fino alla vigilia, non è inferiore per importanza a quello dei vincitori effettivi. Così, alla fine, forse non è paradossale concludere che nella storia del Nobel letterario a fare notizia e scalpore siano più gli ‘illustri’ assenti che gli ‘sconosciuti’ vincitori.

Cosa non va nel Premio Nobel per la letteratura

LA NATURA DELLA CREATIVITÀ

lifeart-butterfly_edited-1Che cos’è la creatività? Parole come “creatività” sono solo simboli che usiamo come mezzo per comunicare tra di noi. Noi ci occupiamo fondamentalmente di persone. Così, nel discutere la natura della creatività, noi ci interessiamo agli esseri umani, in quanto essi sono, cosa fanno, come lo fanno, cosa l’aiuta a farlo e cosa li ostacola. Ci sono alcune persone creative, e altre non creative; sono di più o di meno le non creative? Con quale metodo o procedura possiamo arrivare alla coerente nozione di che cosa è che noi intendiamo per creatività? Una definizione è una dichiarazione per chiarire una descrizione o un’impostazione di confini o limiti. Una definizione può venire solo dopo molte specifiche e affidabili percezioni, e molte esperienze valide. Cerchiamo di vedere che tipo di percezioni o esperienze ci fanno ottenere la nozione della creatività. Ci sono diversi modi di considerare la creatività. È assiomatico che la creatività deve rappresentare la nascita di un qualcosa di originale e unico. Se siamo in grado di accettare questo assioma esaminiamo alcuni dei i modi in cui gli originali possono essere percepiti. Esamineremo qui alcuni aspetti della creatività che hanno importazione psicologica: (1) La creatività come prodotto e come processo; (2) La creatività come primordiale qualità di base della vita; (3) La creatività come una nuova interpretazione di differenze individuali; e (4) La creatività come espressione dell’inconscio.

  1. La creatività come prodotto e come processo. Un approccio per una definizione può essere fatta pensando alla creatività come prodotto e come processo. Se facciamo questa distinzione troviamo che da un lato stiamo sottolineando il rapporto con le cose e dall’altro stiamo manifestando un interesse alle persone. Il pensiero della creatività porta alla mente la Monna Lisa di Leonardo da Vinci; le poesie di Milton; la scultura Il Pensatore di Rodin; il parafulmine, le lenti bifocali e la stufa di Benjamin Franklin; il telegrafo di Morse; il telefono di Alexander Graham Bell; la luce elettrica e il fonografo di Edison. La creatività in questi casi è associata a un dipinto, una scultura, un sonetto, un’invenzione, un prodotto che può essere visto, studiato, apprezzato. Il prodotto, tuttavia, richiede tempo per essere prodotto; non succede tutto in una volta. Nella concezione e nella realizzazione del prodotto ci potrebbero essere stati diversi tentativi, stage, fasi, transizioni, fallimenti, revisioni. È noto che i manoscritti sono stati rivisti; i dipinti sono stati ridipinti e riordinati. È vero che alla creatività come prodotto è stata data maggiore attenzione o enfasi della creatività come processo. Perché è stato più facile pensare al prodotto che al processo? Ci sono diverse buone ragioni. Il prodotto è qualcosa di tangibile che può essere visto o sentito, e può essere descritto, discusso, ammirato. Il processo è spesso oscuro, sconosciuto, inavvertito, non verbalizzato, anche da parte della persona stessa, e quindi non comunicato agli altri. Il prodotto e il processo sono entrambi importanti. Senza il processo non ci sarebbe il prodotto. Senza il prodotto o la prova di realizzazione potrebbe non esserci la motivazione per sostenere il processo.

Si può definire o descrivere la Gioconda dopo che è stata dipinta, ma non si può definire o descrivere o anche immaginarla prima che lo fosse. Finché l’artista ha lasciato andare il suo prodotto neppure l’artista può essere sicuro che tipo di prodotto realizzare.

  1. La creatività come qualità del protoplasma. La vita di un essere umano comincia con l’interazione di uno spermatozoo con un ovulo non fecondato. La fecondazione è in realtà un processo bidirezionale di comportarsi, interagire, relazionarsi, comunicare. I biologi presumono che non ci sono due spermatozoi simili tra loro e che ogni uovo non fecondato è unico. I biologi ci dicono anche che, in primi momenti di vita, nella scomposizione dei cromosomi, tra il rigetto di alcuni e il riarrangiamento di altri, ci sono oltre sedici milioni di combinazioni genetiche possibili. Eppure ogni bambino rappresenta solo uno di quei sedici milioni di possibilità. Uno in sedici milioni è quasi una definizione statistica di individualità o unicità. È senza dubbio una fortuna per l’individuo che questo processo precoce sia rimosso dalla natura del tutto dal controllo degli educatori, progettisti, professionisti, psicologi, medici o anche i genitori. Unicità, individualità sono i primi principi di natura biologica. In un certo senso questo principio è protetto dalla manipolazione umana o dal controllo di una generazione su un’altra.

Inoltre, non si sa ancora la formula con cui metà dei cromosomi siano scartati. Non è il padre né la madre né il medico che prendono questa decisione. Al momento non lo fanno sapere che sta accadendo. Eppure lo scarto dell’irrilevante è un altro principio di base della vita. In questo caso sembra che è attraverso l’interazione dell’uovo e dello sperma che l’irrilevante è determinato. La natura fa sì che ogni generazione renda questi importanti atti senza un intervento cosciente o senza la consapevolezza dei genitori, progettisti o supervisori. La fecondazione dell’ovulo è scarsamente consumata prima che questa cellula cominci a dividersi e suddividersi. Con l’età adulta ci sono miliardi di cellule nel corpo umano, ciascuno con un’ereditarietà presumibilmente identica all’unicellulare uovo fecondato originale. Ancora ogni cellula è differente, altamente differenziata e allo stesso tempo altamente integrata con tutte le altre. Infatti, differenziazione e integrazione, le due qualità essenziali della crescita, sono i processi con cui tale crescita e sviluppo sono descritti. La crescita mantiene e produce le differenze.  La vita è un processo di continua unicità, un fluire in movimento, un cambiamento dell’originalità. La creatività è l’emergere degli originali. Fermare questo processo, arrestarlo, inibirlo, limitarlo significa ritardare la creatività.

  1. La creatività come una nuova interpretazione di differenze individuali. Poiché siamo interessati a persone, dovremmo esaminare di nuovo il nostro concetto delle differenze individuali nel significato che riveste la creatività. Nonostante l’unicità della cellula vivente e l’individualità degli organismi biologici sono noti da molto tempo, le differenze individuali sono un concetto banale oggi.  Le differenze individuali cominciarono a essere note agli psicologi oltre ottanta anni fa.

La creatività è il flusso delle differenze individuali; è il continuo processo di originalità e unicità nella persona.

  1. La creatività come espressione dell’inconscio. Nessuno sa dove o come l’Inconscio si sviluppa nel neonato umano. Con così poche conoscenze, è opportuno che ognuno faccia le proprie speculazioni su cos’è l’inconscio e come ci sia arrivato. Un matematico che ha lavorato senza successo su un problema per settimane si sveglia nel cuore della notte con la formula corretta. La scrive su un fazzoletto di carta, ma la mattina non è più in grado né di leggerla o ricordarla. Aspetta due settimane e di nuovo nella notte riappare la formula ma questa volta la scrive sulla carta buona. In letteratura, tuttavia, l’inconscio può essere sano o malsano. Nella misura in cui l’inconscio si esprime in arte o simbologia riflette la qualità della salute o la malattia nella stessa persona. Freud formulò il concetto che l’inconscio lavorava con persone infelici e improduttive.

Una persona è un organismo in parte complesso sia biologicamente sia psicologicamente. La creatività rappresenta una riorganizzazione, una composizione che comprende come essenziale il rifiuto dell’irrilevante. Nella vita cosciente di ogni persona ci sono alcune interessanti, armoniche e socialmente integrative esperienze. Ma c’è anche molto di irrilevante che deve essere scartato. Ci sono molta coercizione culturale, dominio e conformità nella vita cosciente di tutti. Uno cerca di evitare tutto questo. L’artista va in uno studio appartato, lo scienziato si nasconde in un laboratorio tranquillo, dove è più facile concentrarsi, dov’è più semplice il coinvolgimento emotivo con un’idea, pensare in modo naturale e rifiutare le tradizioni, respingere gli stereotipi e gli altri modelli conservatori di pensare e di agire, per non parlare di rifiutare ciò che è errato e contraddittorio alla propria esperienza. Anche il bambino ha bisogno di qualche angolo della casa, dove può talvolta essere solo per essere con se stesso. Il mondo cosciente e culturale dell’individuo non tollera la verità e la bellezza come la stessa persona vede.

Il vero sé nella cultura deve comportarsi in modo difensivo, come uno straniero in una terra di adulti preoccupati, indifferenti e ostili. Nel comportamento cosciente, uno mostra solo quel tanto di se stesso. Il resto del suo comportamento cosciente è falsità, dissimulazione, che impara molto presto e dolorosamente come un bambino, ma molto bene nel processo di “socializzazione”.

Con questa idea di coscienza è facile comprendere le molte segnalazioni di artisti, poeti, scienziati che hanno lavorato duramente, faticosamente, e senza successo a livello cosciente su alcuni problemi. Solo in qualche momento di relax, o di distacco dall’attività della giornata, in un certo momento in cui il sé è solo, arriva l’idea così abilmente che sembra venire senza sforzo.

Visualizzazione l’inconscio in questo modo solleva la questione di quanto si comprenda la persona – il bambino, l’artista, il poeta, lo scienziato, il chimico, l’ingegnere creativo – se uno non capisce la realtà delle interazioni umane. In quei momenti – momenti così rari, anche per un genio che chiamiamo momenti di ispirazione – in quei momenti di unità, armonia, e sicurezza nel suo interagire con l’universo, in quei momenti propizi, in cui si manifesta la propria originalità, si diventa creativi.

originalÈ questo il senso del genio creativo, che solo poche persone sono in grado di vivere in tale verità a se stessi e agli altri? Una grande intelligenza e il talento da soli non sono sufficienti a far emergere la creatività. Forse soltanto superando la falsità, gli errori, i nodi scorsoi della propria cultura, aprendosi alla totalità delle proprie esperienze che anche per brevi momenti si riesce a vivere coscientemente con il proprio inconscio?

LA NATURA DELLA CREATIVITÀ

Il ticchettio che produce una macchina per scrivere

monarch-pioneerVivere quando le persone possono “processare le parole”, immediatamente copiarle, e anche inviarle quasi ovunque nel mondo attraverso le linee telefoniche, possiamo trovare difficile credere che il precursore del word processor, la macchina per scrivere, è stata inventata poco più di un centinaio di anni fa.

La macchina per scrivere Blickensderfer è del 1895. Questo oggetto, una volta onnipresente in ogni ufficio, scuola e casa, seguì una lunga strada per il riconoscimento. La macchina per scrivere ha trovato l’accettazione solo quando i suoi promotori finalmente capirono chi sarebbe stato il suo più probabile utente. Prima che potesse verificarsi, tuttavia, i valori sociali che regolavano la corrispondenza personale e professionale dovevano cambiare e ammettere l’uso di un dispositivo meccanico al posto della penna.

La tecnologia e l’invenzione della macchina per scrivere

Le macchine per scrivere divennero tecnologicamente disponibili già nel XIV secolo. L’invenzione di almeno 112 tali macchine precedette il successo della macchina per scrivere Remington. Molti dei primi progetti ricevettero i brevetti, e diversi furono commercializzati su una base limitata. Il primo brevetto è stato rilasciato a Henry Mill, un ingegnere inglese, nel 1714. La prima primitiva macchina americana è stata brevettata nel 1829 da William Burt di Detroit. Fu l’inventore americano Christopher Latham Sholes a sviluppare la macchina che finalmente uscì sul mercato come la Remington, stabilendo l’idea moderna della macchina per scrivere. Il primo tentativo di Sholes a una macchina per scrivere era un pezzo grezzo fatto con le parti di una vecchia tabella, un pezzo circolare di vetro, un tasto telegrafico, un pezzo di carta carbone e un filo armonico. Ciò portò a un prototipo simile a un pianoforte giocattolo in apparenza, che è ora nel Museo Nazionale di Storia Americana della Smithsonian.

Nonostante l’importanza dei miglioramenti di Sholes alla macchina per scrivere Remington, le lavorazioni alle parti meccaniche durò alcuni anni, e solo alla fine del 1880 ci fu il suo incredibile successo a opera del suo sostenitore più fedele, James Densmore. Sotto sollecitazione di Densmore, Sholes migliorò la prima macchina grezza più volte. Densmore è stato il responsabile per il reclutamento del primo produttore della macchina di massa, E. Remington and Sons, di Ilion, New York, una società che aveva fatto denaro con gli armamenti durante la guerra civile ed era alla ricerca di nuovi prodotti per la fabbricazione.

Trovare un mercato

Il grande problema delle prime macchina per scrivere era trovare un mercato. Nessuno sapeva chi volesse acquistare una macchina per scrivere. Sholes pensava che i suoi più probabili clienti sarebbero stati i sacerdoti e gli uomini di lettere e sperava che l’interesse potesse quindi espandersi al grande pubblico. Né lui né Densmore vedevano l’utilità evidente della macchina per scrivere negli affari. Le condizioni economiche ristagnavano negli anni ’70 dell’Ottocento ed erano in parte responsabili di questa mancanza di lungimiranza di marketing. Le imperfezioni della macchina per scrivere erano l’altra difficoltà che ne impediva uno sviluppo di massa. E, cosa difficile da concepire oggi, gli Americani nel 1870 e 1880 erano profondamente a disagio con la strana nozione di “scrittura meccanica”. Era d’uso pensare che tutte le lettere fossero scritte in una scrittura a mano pulita, e gli uomini d’affari non facevano eccezione a questo requisito.

La risposta del XIX secolo a una lettera scritta a macchina era qualcosa come la nostra risposta alle email spazzatura! Inoltre, le firme digitate possono essere contraffatte. Alcune persone destinatarie di lettere digitate si arrabbiavano commentando sull’incapacità di leggere la grafia della macchina.

Un passo avanti si verificò con lo sviluppo del concetto di “gestione scientifica” nel 1880. Con la specializzazione del lavoro – le persone che scrivevano la corrispondenza, o quelle che tenevano la contabilità, ecc .– accettarono finalmente la macchina per scrivere. La gente fu pronta a rinunciare alla vecchia idea delle lettere commerciali che erano disciplinate dalle stesse regole delle lettere personali quando gli affari diventarono così grandi e impersonali che fu possibile il cambiamento.

Christopher Sholes, nel 1868 (anche se il brevetto fu registrato solo dieci anni dopo), a farnirci la “strana” disposizione delle lettere sulla tastiera, quella a cui, oggi, siamo stati abituati: lo stile QWERTY. Il nome deriva dalle prime sei lettere che compaiono sulla riga superiore, che lette così non sembrano avere molto senso. Ma perché sono disposte in questo modo? La leggenda vuole che la disposizione dei tasti della prima linea della tastiera Qwerty fosse stata impostata in modo che i venditori delle macchine per scrivere fossero in grado di trovare facilmente i tasti per scrivere “typewriter” (“macchina per scrivere” in inglese) durante le dimostrazioni! In realtà, la tastiera QWERTY sarebbe nata per rispondere a un problema tecnico delle primissime macchine da scrivere, o meglio di alcuni modelli (ne esistevano tantissimi, verso la fine dell’Ottocento), in cui i testi servivano a far scattare verso il foglio bacchette di metallo con in testa il carattere da imprimere, con un meccanismo che era ancora imperfetto, lento e facile a incepparsi. Capitava così, se il dattilografo era troppo bravo, che la macchina non stesse dietro alla sua velocità e si inceppasse in continuazione. La tastiera QWERTY nasceva quindi per rallentare il dattilografo e fare in modo che lettere che molto spesso vengono battute una dopo l’altra si trovino distanti l’una dall’altra: in questo modo è più difficile che si inceppino le due barrette.

Il cambiamento della macchina per scrivere

I cambiamenti della macchina per scrivere offrono la prova che la progettazione di un oggetto fabbricato riflette una complessa combinazione di valori sociali, bisogni economici, e motivazioni al profitto. La maggior parte delle apparecchiature per ufficio prima del 1940 era apertamente meccanica e industriale in apparenza. In tempi di difficoltà economiche, nel periodo della depressione mondiale della fine degli anni 1920 e 1930, gli uffici non avevano problemi ad attirare lavoratori, che avrebbero lavorato ovunque, in quasi tutte le condizioni, e con qualsiasi apparecchio. I primi cambiamenti nello stile della macchina per scrivere in realtà non è apparsa nelle macchine per ufficio, ma nelle portatili, che a partire dai primi anni 1930 furono semplificate e offerte in vari colori per incoraggiarne l’uso in casa.

Negli anni 1950 e 1960, l’intero ambiente dell’ufficio cambiò con più apparecchiature per ufficio. Dal 1950, quasi tutti i produttori di macchine per scrivere per ufficio presentavano le loro macchine in contenitori d’acciaio colorati che nascondevano il meccanismo e suggerivano una certa eleganza. Se le segretarie e i dattilografi dovevano essere al di sopra degli operai, era importante che le macchine per scrivere non sembrassero delle macchine, ma trasmettessero un’immagine rispettabile e meno opprimente.

La macchina per scrivere elettrica contribuì a far avanzare questa nuova immagine. Anche se i primi mezzi elettrici furono prodotti nel 1930, solo dal 1950 guadagnarono ampi consensi.

Quando è diventata obsoleta la macchina per scrivere?

Nel 1970 la macchina per scrivere cominciò a competere con la macchina per scrivere t IBM 60, una combinazione intelligente della tastiera della macchina per scrivere con il cervello di un computer. Il processo di scrittura lasciò che dattilografi potessero commettere errori per poi correggerli, o addirittura cambiare idea in modo così semplice che, invece, avrebbe richiesto una ribattitura senza fine su una macchina per scrivere tradizionale. Dal 1990 l’elaborazione dei testi diventò un altro programma (software) nei personal computer.

Eppure le macchine per scrivere hanno ancora un posto in alcune case e uffici. Alcune persone sono molto attaccate alle loro macchine per scrivere, con la stessa dedizione di alcuni utenti che usano la penna stilografica anziché una normale biro!

Nei 2011 ha chiuso i battenti in India la Godrej & Boyce, l’ultima azienda al mondo che produceva macchine per scrivere. Va definitivamente in pensione un’invenzione che ha dato grande lustro all’Italia (la prima macchina per scrivere fu ideata dal novarese Giuseppe Ravizza nel 1846 e una delle più celebri della storia, la mitica Lettera 22 fu realizzata dalla Olivetti a metà anni Cinquanta) e che ha radicalmente cambiato il modo di lavorare delle aziende nel XX secolo.

Forse non tutto è perduto. Da poco è nata la Hemingwrite, una macchina per scrivere digitale minimalista per la scrittura libera. Combina la semplicità di una macchina per scrivere con la tecnologia moderna come uno schermo di carta elettronica, connessa via Wi-Fi, salva i documenti con i servizi cloud, memorizza più di un milione di pagine, progettata per fare una cosa sola, ma farla eccezionalmente bene: scrivere.

Il ticchettio che produce una macchina per scrivere

Le librerie indipendenti come risorsa comunitaria unica

autori_alessandro-12Le librerie indipendenti si dovrebbero evolvere in un’unica – quasi indispensabile – risorsa della comunità. I negozi diventerebbero più che semplici negozi, così come molti si sono già evoluti in luoghi in cui la comunità si riunisce, in cui sono sostenuti i nuovi autori, e dove l’economia locale ha iniziato a rivivere. Per la sorpresa di molti – spesso, degli stessi librai – le librerie indipendenti sono diventate un centro di vita locale.

Cosa è avvenuto negli ultimi 25 anni? La maggior parte dei mezzi di informazione non considera la “libreria” un luogo culturale, come potrebbe essere una biblioteca, ma solo un esercizio commerciale. Le scuole di business sembrano considerare il mondo quotidiano della comunità basato sulla vendita al dettaglio. Che resta di altri aspetti che andrebbero considerati?

L’impatto importante di una libreria indipendente può essere suddiviso in tre categorie:

1. libreria indipendente come motore per la crescita economica locale
2. libreria locale come catalizzatore per nuovi scrittori e lettori
3. attività libraria come punto focale per la vita comunitaria

I librai indipendenti condividono alcune di queste caratteristiche con altre istituzioni. Tutti i rivenditori locali, per esempio, sono un motore migliore per la crescita locale rispetto ai loro concorrenti “di catena”, ma il vantaggio locale fornito dalle librerie indipendenti è probabilmente ancora maggiore. Altre organizzazioni forniscono un punto di incontro per le attività della comunità, ma le librerie indipendenti spesso forniscono un programma che può aiutare a stimolare la comunità locale. In ultima analisi, è l’interazione di questi tre tipi di attività che rende moderna l’indipendenza del libraio in qualcosa di unico e prezioso.

Ironia della sorte, i librai indipendenti si trovano in questa posizione di responsabilità proprio nel momento in cui sono più sotto assedio. Nello stesso periodo in cui le librerie indipendenti sono diventate così preziose per la comunità, le loro fila si stanno impoverendo a causa dell’inarrestabile espansione delle librerie “di catena” e il richiamo di internet (i negozi online). Il numero di librerie indipendenti è dimezzato, mentre quello “di catena” è più che raddoppiato. Anche se la situazione si è stabilizzata un po’ negli ultimi due anni, il futuro delle librerie indipendenti è sempre legato a una questione di sopravvivenza. Può sembrare melodrammatico, ma ciò che è in gioco è la qualità della vita in molte comunità servite da buoni librai indipendenti. Una comunità con una buona libreria è in una posizione migliore per resistere alle pressioni incessanti che portano all’appiattimento culturale.

1. Libreria indipendente: un motore per la crescita economica locale

Questo tipo di attività porta denaro nell’economia locale, mentre i punti vendita di locali “di catena” non fanno nulla di paragonabile. Non sono solo i grandi, drammatici eventi che danno una spinta all’economia locale. I librai indipendenti, per ogni passaggio di una novità editoriale, che hanno una lista di eventi con l’autore, potrebbero anche vendere i libri autografati su internet per i clienti di altre città. Non basta terminare il proprio compito di libraio con l’evento, ma proseguire la campagna di sensibilizzazione di un buon libro nel tempo. Ci sono molti modi di “spingere” un libro: parlarne con i clienti, proporlo ai gruppi di lettura, selezionarlo sul proprio sito con una recensione.


2. Libreria indipendente: un catalizzatore per nuovi scrittori e lettori

Se i librai indipendenti sono stati costretti ad abbandonare le imprese, la maggior parte delle persone – anche i clienti irriducibili di librerie indipendenti – danno per scontato che avrebbero potuto trovare i libri che vogliono da qualche altra parte. Ma è probabile che sia il caso di rivedere questo concetto. Nel business del libro, più che in ogni altro, la qualità di ciò che viene creato presso il produttore o il livello di editore è in gran parte determinato da come quei libri sono venduti ai consumatori al dettaglio. Se il librario indipendente muore, molti tipi di libri moriranno con lui. Un mondo senza Indipendenti. Per vedere l’effetto raggelante sui nuovi libri, immaginate un business del libro in cui non ci sono librerie indipendenti. L’editoria, in questo tipo di sfortunato scenario, assomiglierebbe a un imbuto. Molte migliaia di scrittori, che lavorano magari attraverso centinaia di piccoli editori, sarebbero alla ricerca di potenziali lettori. Ma avrebbero questa possibilità solo se i loro libri riuscissero a superare il collo stretto dell’imbuto per approdare a una piccola manciata di acquirenti delle librerie “di catena”.

L’analogia imbuto non è inverosimile. Le “catene” comprano a livello nazionale; a volte c’è un solo acquirente che decide se un libro apparirà in uno dei loro negozi. Questa decisione può avere un effetto letale sul futuro del libro. Il rifiuto delle principali catene di portare un libro, di solito provoca l’editore a ripensare alla sua commercializzazione, spesso tagliando il budget pubblicitario e lasciando che il libro languisca, a meno che qualcosa di miracoloso non si verifichi per rilanciare le vendite. Spesso è anche peggio di così.
Senza librai indipendenti che possano eseguire la cruciale commercializzazione dei nuovi autori e di libri non convenzionali, l’industria editoriale molto probabilmente peggiorerebbe molto rapidamente in un business di autori famosi, affermati best-seller e libri formula. Le implicazioni sarebbero disastrose per la libertà di parola. Libri su affari pubblici probabilmente sarebbero limitati solo a coloro che riflettono il punto di vista politico delle persone al vertice della piramide sociale. Dal punto di vista di nuovi autori, ci potrebbe forse essere uno scenario peggiore che avere il destino dei propri libri decisi da un paio di acquirenti “di catena”? Beh, in realtà potrebbe essere così.

L’impatto delle librerie indipendenti

Bisogna mettere le librerie indipendenti di nuovo in scena perché nuovi autori e nuovi tipi di scrittura abbiano molte più possibilità di successo. Anche se possono essere solo una piccola parte del business complessivo del libro, con alcuni tipi di libri – in particolare i libri nelle loro fasi iniziali – i librai indipendenti svolgono un ruolo fondamentale. I librai indipendenti sono essenziali per promuovere nuovi tipi di letteratura fagocitati da editori intraprendenti, forse anomali, ma coraggiosi. Questo è ben riconosciuto dagli editori intelligenti. L’editore si augura che quei librai sappiano apprezzare il libro e consigliarlo a clienti. L’editore dovrebbe utilizzare il feedback positivo che ottiene dai librai indipendenti per spingere la commercializzazione del libro più vigorosamente. Il problema ora si evidenzia in tutto il suo aspetto più intricato, accattivante e difficile. Le librerie indipendenti non dovrebbero continuare a scimmiottare le concorrenti “di catena” approfittando di vendere i bestseller indicati dalle classifiche convenzionali.  Chi fa le classifiche? Gli stessi giornali che appartengono ai grandi gruppi editoriali! Le librerie indipendenti dovrebbero proporre settimanalmente una classifica al di sopra degli schemi, basata sulla letteratura di qualità.

Senza un vero associazionismo, un coordinamento delle librerie indipendenti, le proposte dei librari indipendenti finirebbero per assomigliarsi a quelle dei corrispettivi “di catena”.

La soluzione potrebbe essere quella di generare proposte diverse, lasciando da parte i libri dei grandi gruppi editoriali (a meno di opportune eccezioni) o dell’editoria di cassetta.

Nuove idee dal basso

La maggior parte dei librai indipendenti non si accontenta semplicemente di vendere libri dall’alto verso il basso. Di solito dovrebbero spingere gli editori dal basso, suggerendo argomenti che potrebbero vendere nella loro comunità, dando un feedback sulle preferenze dei clienti, e spingendo le carriere di autori locali. Questa “spinta dal basso” è un modo di migliorare la tendenza delle case editrici nazionali e presumere che tipo di libro si legge in un quartiere o in città piuttosto che in altri. I librai indipendenti dovrebbero lavorare a stretto contatto con i piccoli editori locali, fornendo un mix di libri che non possono essere disponibili a livello nazionale. Per molti di questi piccoli editori sarebbe difficile rimanere in attività se avessero solo le catene nazionali dove distribuire i loro libri. Alcune librerie indipendenti vanno oltre, lavorando per portare nuovi autori nel sistema.

3. Librerie indipendenti: un punto di riferimento per la vita comunitaria

Il sociologo Ray Oldenburg ha coniato il termine “Il terzo posto” (che ha contrapposto al primo e secondo posto di una casa e di lavoro). “Il benessere sociale e la salute psicologica” sostiene, “dipendono dalla comunità”.

Quali sono le caratteristiche che fanno di una struttura degna del titolo di ” terzo posto?” L’autenticità è uno di loro. I centri commerciali preconfezionati con musica in sottofondo sono l’apoteosi del “non fare, né diventare”, un formato manipolato e manipolativo capeggiato da una gestione indifferente e propensa solo controllare l’aspetto superficiale. Le librerie indipendenti, al contrario, sono luoghi dove la gente si riunisce “facilmente, a buon mercato, regolarmente, e piacevolmente”. Il libraio/proprietario è quasi sempre una persona di fiducia – un residente della comunità, profondamente coinvolto nella vita civile, e tenace nelle cose in cui crede.

Talvolta l’interazione tra autori e la comunità crea un evento che è quasi magico nelle sue dimensioni. L’evento di un autore a volte porta a lezioni di scrittura tenute da quell’autore.
Ci sono alcuni momenti toccanti della vita della libreria quando fornisce un luogo di incontro per riunioni sia formali sia informali. Le librerie indipendenti sono un rifugio per i gruppi di scrittura che si incontrano nel negozio, pianificano le loro riunioni e coordinano presentazioni di nuovi libri. A volte la libreria può essere semplicemente un luogo di incontro della comunità.

Il nuovo ruolo
Senza preavviso o fanfare, i librai indipendenti hanno assunto un nuovo ruolo nelle loro comunità. Loro possono diventare il motore della crescita economica locale, gli sponsor di nuovi autori, e le librerie luoghi di ritrovo per una vasta gamma di gruppi locali e per le attività della comunità. Ma sono ancora dei librai. La vendita di libri è fondamentale e, a meno che non si venda un numero sufficiente di libri, tutta l’impresa potrebbe subire una battuta d’arresto, lasciando un buco nella vita comunitaria. La sopravvivenza può essere garantita solo dall’originalità delle scelte e dal grado di cooperazione che i librai indipendenti sapranno garantire alla comunità, agli editori.

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Le librerie indipendenti come risorsa comunitaria unica

Libri per Natale

Libri per Natale? Che diavolo sono?

Dovrebbe servire da ammonimento per ogni genitore che ha deciso di andare in fondo al motto ‘la cultura innanzitutto’ anche a Natale.

Un bambino di tre anni ha perso la sua allegria di Natale quando ha ricevuto un libro come dono di Natale.

Il ragazzo si vede vestito con un pigiama ed praticamente sepolto in un mucchio di altri regali.

Egli strappa eccitato la carta da imballaggio per scoprire l’ennesimo misterioso regalo, che risulta essere di tre libri.

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Che cos’è questo, allora? Le mani eccitate del bambino strappano la carta da imballaggio per rivelare l’ennesimo regalo di Natale.

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C’è un regalo qui da qualche parte: dopo aver scartato quella che sembra essere una pila di libri, il ragazzo si agita nel tentativo di rivelare il ‘vero’ regalo.
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Oddio: Il totale disprezzo per il materiale di lettura è evidente sul volto del bambino come se avesse detto ‘Che diavolo è questo?’ ai suoi genitori, urlandolo a squarciagola.

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Con involontario ma superbo stile da commedia, il bambino passa al setaccio i libri, nel tentativo di trovare il ‘reale’ presente.

Quando si accorge che i libri sono davvero il regalo, il suo umore si sposta da eccitazione vertiginosa all’indignazione precoce.

“Libri?” egli tuona, guardando incredulo gli oggetti offensivi sparsi sul pavimento.

Quando suo padre ignaro conferma i sospetti del bambino, entrambi i genitori non sono risparmiati dall’ira del piccolo.

“Libri per Natale? Che diavolo sono?”

In piedi e allontanandosi, come se improvvisamente contengano qualcosa di contagioso, il bambino lancia un dito accusatore sui libri e aggiunge: “Non capisco i libri. Questo non è un giocattolo, che me ne faccio dei libri”.

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Esige una spiegazione. Ora è in piedi e punta il dito contro i libri: il bambino rivela tutto il suo odio e pensa che il dono è uno ‘schifo’.

Questo pacco sembra essere migliore. Il bambino si è spostato su un altro regalo, guardandolo con sospetto. Suo padre lo rassicura: “Non credo che quelli siano libri”.

Sia la madre sia il padre ascoltano ridendo la reazione del bambino, che sembra suscitare ancora maggiore emozione nel figlio.

Quando sua madre ripete “Sai che non è facile trovare libri giusti per Natale?” lui dice: “No. Li odio”.

Il commento potrebbe essere che lettori si nasce oppure si diventa. Dove finiranno quei soliti giocattoli regalati ai nostri figli a Natale? Distrutti o dimenticati nel giro di pochi giorni.

Un libro si può conservare per sempre. Quando il bambino diventerà adulto, ritrovando tra le mani la sua fiaba o un libro illustrato, penserà che i suoi genitori avevano fatto bene a regalargli un libro.

Non esistono solo ‘giocattoli’ per Natale.

I libri sono anche un divertimento per i bambini. Abituiamoli alla lettura fin da piccoli. Così cresceremo dei lettori.

Libri per Natale

10 cose che il tuo cane ti direbbe

Dieci cose che il tuo cane ti direbbe

fotoCi sono cose semplici e commoventi che mi sono sentito in dovere di condividerle qui. Quanti di voi considerano un libro un buon amico e quanti di voi hanno trovato in un cane il loro migliore amico. I cani sono fedeli come un libro. Vi invito a condividere i vostri pensieri con i miei.

1 La mia vita è destinata a durare dieci-quindici anni. Qualsiasi separazione da te sarà dolorosa: ricordati che me ne andrò prima di te.

2. Dammi il tempo di capire cosa vuoi da me.

3. Fai in modo da darmi fiducia; è fondamentale per il mio benessere.

4. Non essere arrabbiato con me per molto tempo, e non mi infliggere severe punizioni.

5. Tu hai il tuo lavoro, il tuo divertimento e i tuoi amici. Io ho solo te.

6. Parla con me qualche volta. Anche se io non capisco le tue parole, capisco la tua voce.

7. Essere consapevoli del fatto che comunque mi tratti, io non dimenticherò mai.

8. Ricorda prima di colpirmi che ho denti aguzzi che potrebbero facilmente farti del male, ma ho scelto di non mordere perché ti amo.

9. Prima che mi rimproveri per essere stato poco collaborativo, ostinato o pigro, chiediti se qualcosa potrebbe darmi fastidio. Forse non mi dai il giusto cibo, oppure sono stato fuori troppo a lungo, o il mio cuore sta diventando troppo vecchio e debole.

10. Prenditi cura di me quando sarò vecchio.  Anche tu invecchierai. Accompagnami nei viaggi difficili. Mai dire: “Non posso sopportare di guardarlo” o “Lascio che accada in mia assenza”. Tutto è più facile per me se ci sei, anche alla mia morte.

Ricordati che ti amo.

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10 cose che il tuo cane ti direbbe

La letteratura incontra il calcio. Esempio di Pier Paolo Pasolini

ll gioco del calcio è lo sport nazionale per eccellenza non solo in Italia; l’unico che unisce in un comune sentimento di entusiasmo e partecipazione tutte le fasce sociali e che riesce a tenere desta l’attenzione ben prima e ben dopo l’ora e mezza di durata della partita. Che sia il mezzo televisivo o la visione diretta a comunicare le immagini del gioco, l’eccitazione del pubblico si mantiene sempre a un livello molto alto e la tensione quasi mai si acquieta con la fine del gioco ma lo trascende e ha modo di scaricarsi nelle strade cittadine, coinvolgendo anche chi l’incontro agonistico non l’ha seguito. È un gioco che, proiettato oltre gli stadi ufficiali, si reinventa quotidianamente nelle migliaia di campi sportivi più o meno improvvisati, nelle scuole e nei cortili delle case, ovunque si ritrovino un gruppo di ragazzi intorno a un pallone.
Registrare questo fenomeno, con spirito di partecipazione, con la serena ottica dell’interesse culturale, con l’acuta indagine della curiosità è la sfida che hanno lanciato, nel tempo, giornalisti, fotografi, sociologi, filosofi, pittori, scultori e anche letterati. Lo scrittore di prosa e il calciatore potrebbero sembrare diametralmente opposti. Ma hanno più in comune di quanto si potrebbe pensare.

Il calcio è una metafora della vita, sentenzia Jean-Paul Sartre. La vita è una metafora del calcio, corregge il filosofo Sergio Givone. Di certo, calcio e letteratura vanno a braccetto, in una simbiosi ormai consolidata.
Si può quasi essere certi che nella mente di un tifoso di calcio l’ultima cosa che possa venirgli in mente è stare seduto in un angolo tranquillo dello stadio con un buon libro in mano quando la sua squadra, casomai, segna il gol della vittoria. Molti potrebbero obiettare che i mondi della letteratura e il calcio sono pianeti diversi, anzi forse in galassie differenti.
Un gruppo di autori di grande fama potrebbe dissentire. Per loro, il calcio non è solo uno sport che si ama – e tutto ciò che intorno ad esso è un fenomeno che ispira il loro lavoro. Ci sono scrittori che, in qualche modo,  hanno subito un’influenza sulla vita e sulla loro scrittura attraverso le proprie esperienze con lo sport. Sappiamo come il calcio sia stato anche utilizzato per manipolare le masse da parte di diverse dittature militari, come quella argentina con la vittoria della squadra nazionale della Coppa del Mondo nel 1978. Nell’Unione Sovietica, il calcio era visto come qualcosa di simile a una fabbrica collettiva, e aveva un carattere nettamente militarista. Molti russi che detestavano quegli aspetti della vita sovietica d’altra parte consideravano una partita della nazionale una forma di protesta. Lo scrittore russo Victor Yerofeyev scriveva che “Libri e calcio sono i due modi per sfuggire alla realtà del quotidiano”.
Lo svedese Henning Mankell scrive che il calcio condivide con la letteratura la capacità di raccontare una storia. Ha scritto che una partita vista in Mozambico gli ha cambiato la sua visione del gioco per sempre. È stato oltre 20 anni fa al termine di una brutale guerra civile. Un tentativo per mettere insieme i due contendenti del conflitto di conciliare fu quello di organizzare una partita di calcio tra due squadre di uomini che avevano commesso atrocità durante la guerra.
Mankell, vedendo quegli uomini giocare, scrisse che cominciò a vedersi in modo diverso da come li aveva visti prima, rendendosi conto che i conflitti si possono risolvere in un modo che non comporta la violenza.
“Dramma, letteratura e calcio sono quasi la stessa cosa; conflitti, contraddizioni possono risolversi” ha detto Mankell. “Questo è ciò che l’autore deve fare, e il giocatore di calcio fa lo stesso. Entrambi devono rendere interessante i loro campi, altrimenti nessuno andrà a vedere una partita e nessuno leggerà un libro”.
Tim Parks, uno scrittore inglese che vive in Italia e scrisse un famoso libro che racconta di calcio, dice che la letteratura può essere un luogo di trasgressione, in cui il lato oscuro della natura umana trova uno sbocco. “La gente va allo stadio per vivere l’emozione di delirio collettivo, per sperimentare un luogo di pericolo” ha detto.
Dal momento che le partite sono come “mini-guerre”, si lascia che le persone si perdano in un lato di sé.
“Quando vediamo partite senza aggressività, odiamo questo gioco” ha detto Parks. “La cosa più interessante per noi autori non è in realtà il gioco stesso, ma quello che accade intorno, poiché la quantità crescente di buona scrittura di calcio inizia dove il gioco sul campo finisce”.
Manuel Vázquez Montalbán, tra un’osservazione tecnica sul campionato spagnolo e uno sberleffo agli odiati dirigenti, formula preziose osservazioni sul rapporto tra calcio e letteratura:
“Sono stati soprattutto gli autori latino-americani a trasformare il calcio in una moderna forma di epica. E allo stesso modo in cui Paesi come il Brasile e l’Argentina esportano giocatori in tutto il mondo, l’epica calcistica di autori come Eduardo Galeano e Osvaldo Soriano è stata esportata in tutto il mondo. Questi scrittori hanno saputo presentare il calcio per quello che veramente è, ossia una forma d’arte popolare. In questi autori c’e una naturalezza, una semplicità che manca del tutto negli scrittori europei. Che infatti, nel loro intellettualismo, hanno sempre snobbato il calcio”.

«I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara
(giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici,
qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco)
sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola,
se ci penso. Allora, il Bologna era il Bologna più potente della sua storia:
quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo),
di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello
degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti).
Che domeniche allo stadio Comunale!»
Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini, che è stato una fantasiosa ala destra, si spinge addirittura oltre ciò che hanno dichiarato gli altri scrittori sopra citati:
“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”.
Per la sua passione calcistica illimitata Pasolini assimila in modo alquanto originale il calcio a un vero e proprio linguaggio, coi suoi poeti e prosatori, e definisce il football un sistema di segni, cioè un linguaggio, che ha tutte le caratteristiche fondamentali di quello scritto-parlato:
[…] Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato.
Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto.
I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”: e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.
I “podemi” sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le “parole calcistiche” sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei “podemi” (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella “partita”, che è un vero e proprio discorso drammatico.
I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice.
Chi non conosce il codice del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi).
L’amore di Pasolini per il gioco del calcio e la sua conoscenza tecnica di giocatori, schemi, stili e tattiche sono noti. Lui stesso si dedicò al calcio: ogni occasione era opportuna per praticare il suo gioco preferito, soprattutto sui campetti delle periferie romane e non, negli intervalli di lavorazione dei suoi film o appena aveva tempo disponibile.

Pasolini, il calcio e tre libri
Tre scrittori hanno dedicato in anni recenti loro libri a Pier Paolo Pasolini “calciatore”.

Valerio Piccioni
Quando giocava Pasolini.
Calci, corse e parole di un poeta
Limina Edizioni, Arezzo 1996
È la prima biografia-antologia di un Pasolini pressoché inedito, quello che amava e viveva lo sport con la passione di un ragazzo di borgata e la complessità di un intellettuale raffinato.
I calci svogliati dei «ragazzi di vita» nella Roma più periferica, l’antipatia per Benvenuti, la polemica antinazionalista con Arpino, la commozione in diretta tv per il racconto di Vito Taccone, la corte vana a Carlos Monzon mai diventato Yunan nel Fiore delle mille e una notte, le risposte in monosillabi dei giocatori del Bologna alle sue domande sul sesso in Comizi d’amore, la scelta del saltatore Giuseppe Gentile per il Giasone del suo film Medea.
E poi il gioco del calcio con le sue molteplici forme letterarie: gli elzeviri di Rivera e Mazzola, la poesia di Corso e Riva, la prosa di Bulgarelli. Un lungo viaggio attraverso i romanzi, gli articoli, le interviste, le poesie.

Ugo Riccarelli
L’angelo di Coppi
Mondadori, Milano 2001
Storia e fantasia, magia e poesia sono gli ingredienti sapientemente dosati da Ugo Riccarelli nel suo libro. Dieci storie ispirate al mondo dello sport; momenti importanti, veri o sognati, ci narrano storie sconosciute o riportano all’attualità personaggi quasi dimenticati: un magnifico modo per raccontare la grandezza e la debolezza degli uomini, i loro sogni e le loro ossessioni.
Il decimo racconto – in cui Ricciarelli descrive le partite di calcio di Pier Paolo Pasolini, scrittore, poeta, regista e ideatore oltre che allenatore del Caos di Monteverde, una squadra di borgata che parla in romanesco e che più che in una partita sembra impegnata in una rissa, tra maledizioni e bestemmie, ma che, conquistata dal fascino di Pasolini, riesce a diventare una vera squadra -, rappresenta la parte più dolce e commovente del libro ed è la descrizione di un momento di incontro tra sport e cultura in cui molti ancora si rifiutano di credere.

Alberto Garlini
Fútbol bailado
Sironi Editore, Milano 2004
Italia, primavera del 1975. Nei pressi di Mantova, Pier Paolo Pasolini sta girando Salò o le 120 giornate di Sodoma. Poco distante, nei dintorni di Parma, Bernardo Bertolucci lavora al film Novecento. Nel giorno del compleanno di Bertolucci, viene organizzata una partita di calcio tra le due troupe. Il campo è quello della Cittadella, a Parma, intorno al quale sono tutti raccolti i protagonisti di questa storia: Pasolini corre come un forsennato, Bertolucci si improvvisa allenatore; sulle gradinate, tra i numerosi spettatori, si aggirano Alberto, un bambino intimorito dalla solitudine, e Vincenzo, un terrorista nero con una agghiacciante missione da compiere.
Il risultato della partita è in sospeso quando, all’inizio del secondo tempo, entra in campo un sedicenne dalle lunghe cosce, lento e affascinante. Si chiama Francesco, viene dalle giovanili del Parma e gioca con una grazia dirompente. Pasolini, guardando il suo fútbol bailado, calcio danzato imparato nelle strade e nelle piazze, decide di cambiare il finale del film: il nero di Salò, della dominazione fredda dell’uomo sull’uomo, si tinge di una nuova speranza.
L’autore avverte che, pur rifacendosi liberamente ad alcune vicende accadute, il libro è opera di fantasia. I riferimenti a personaggi, episodi, dialoghi attribuiti a personaggi realmente esistenti o esistiti devono essere considerati all’interno della finzione narrativa.

La letteratura incontra il calcio. Esempio di Pier Paolo Pasolini