Cosa ci deve insegnare l Olocausto

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COSA CI DEVE INSEGNARE L’OLOCAUSTO

Non tutte le vittime erano ebrei, ma tutti gli ebrei erano vittime. Perché è così importante il ricordo dell’Olocausto? Sei milioni di ebrei, vittime della Shoah, sono state diffamate, demonizzate e disumanizzate, come prologo o giustificazione per il genocidio. Dobbiamo capire che l’omicidio di massa di sei milioni di ebrei e milioni di non ebrei non è una questione di astratte statistiche.

Poiché a ogni persona corrisponde un nome – in ogni persona c’è un’identità. Ogni persona è un universo. Come i nostri saggi ci dicono: “Chi salva una sola vita, è come se lui o lei avesse salvato un intero universo’’. Così come chi ha ucciso una sola persona, è come se avesse ucciso un intero universo.

Il genocidio degli ebrei d’Europa è riuscito non solo per l’industria della morte e la tecnologia di terrore, ma anche a causa dello stato sanzionato dall’ideologia dell’odio. Questo insegnamento del disprezzo, questa demonizzazione dell’altro, questo è dove tutto ha avuto inizio. Come i tribunali canadesi hanno affermato nel sostenere la costituzionalità della legislazione antiodio, “l’Olocausto non è iniziato nelle camere a gas – è cominciato con le parole’’. Questi sono gli effetti catastrofici del razzismo.

Quarant’anni più tardi, negli anni Novanta, questa lezione è rimasta disattesa. La tragedia si è ripetuta. Abbiamo assistito, ancora una volta, a un aumento crescente dell’odio e dell’istigazione, che nei Balcani e in Ruanda ci ha portato alla strada del genocidio.

Il genocidio degli ebrei d’Europa è stato conseguito non solo a causa della cultura sottoscritta dallo stato di odio e dell’industria della morte, ma anche a causa dei crimini dell’indifferenza e a causa delle congiure del silenzio. Ricordiamo che l’etiope Haile Selassie invocò invano l’aggressione di Mussolini nel 1935. Il fascismo marciava avanti, ottenendo una vittoria dopo l’altra. Mentre si preparava la guerra, la Cecoslovacchia fu costretta ad arrendersi a Hitler nel 1938, ma ulteriori appelli per la pace passarono inosservati. La risposta fu l’indifferenza internazionale, e il risultato fu la guerra mondiale e il genocidio.

Abbiamo assistito a una terribile indifferenza e inerzia anche recentemente, finendo sulla strada dell’impensabile – la pulizia etnica nei Balcani – e lungo la strada dell’indicibile – il genocidio in Ruanda – indicibile, perché questo genocidio era evitabile. Nessuno può dire che non lo sapeva. Sapevamo, ma non abbiamo mosso un dito, come avremmo dovuto fare per fermare il genocidio in Darfur, ignorando le lezioni della storia, tradendo il popolo del Darfur, e deridendo la responsabilità di proteggere la gente dall’odio di massa.

Nel mondo in cui viviamo, ci sono poche persone disposte ad affrontare con coraggio la battaglia per l’antirazzismo.

È una nostra responsabilità abbattere questo muro d’indifferenza, spezzare queste cospirazioni del silenzio.

L’indifferenza e l’abulia a una mancata azione ci devono far riflettere – l’indifferenza di fronte al male è accondiscendenza con il male in sé – è complicità con il male.

Se il XX secolo – simboleggiato dall’Olocausto – è stato l’età delle atrocità, è stato anche l’età delle impunità. Alcuni dei responsabili sono stati assicurati alla giustizia, ma molti sono stati amnistiati o dimenticati. In questo contesto, l’istituzione del Tribunale penale internazionale deve essere visto come lo sviluppo più drammatico nel diritto internazionale penale, in quanto Norimberga dev’essere ricordata per scoraggiare atrocità di massa, per proteggere le vittime e perseguire i responsabili.

L’Olocausto è stato reso possibile non solo a causa della “burocratizzazione del genocidio”, ma anche a causa della complicità delle élite – medici, leader religiosi, giudici, avvocati, ingegneri, architetti, educatori, e simili. Come è nostra responsabilità dire la verità al potere, il potere deve tenere conto della verità.

Il genocidio degli ebrei d’Europa si è verificato non solo per la vulnerabilità dei senza potere, ma anche per l’impotenza del vulnerabili. Non è sorprendente che la triade di igiene razziale nazista – le leggi di sterilizzazione, le leggi razziali di Norimberga, il programma di eutanasia – mirava a coloro “la cui vita non era degna di essere vissuta”, e non è irreale, come il professor Henry Friedlander sottolinea nel suo lavoro su “Le origini del genocidio”, che il primo gruppo individuato da uccidere fu quello dei disabili ebrei – il tutto ancorato alla scienza della morte, alla medicalizzazione della pulizia etnica, alla sanificazione del vocabolario della distruzione.

La responsabilità come cittadini del mondo e come rappresentanti dei governi è dare voce a chi non ha voce, siano essi disabili, poveri, rifugiati, anziani, donne vittime di violenza, bambini vulnerabili – i più vulnerabili dei vulnerabili.

Conclusione

I sopravvissuti dell’Olocausto sono i veri eroi dell’umanità. Hanno assistito e sopportato il peggio della disumanità, ma in qualche modo hanno trovato nelle profondità della propria umanità il coraggio di andare avanti, di ricostruire la loro vita come noi abbiamo costruito le nostre comunità. Ci dobbiamo ricordare che ogni persona ha un nome e un’identità – che ogni persona è un universo – che per salvare una vita si salva un intero universo.

Ricordiamo – e ci impegniamo – e questo non deve essere una questione di retorica, ma deve essere un impegno di azione – che mai più saremo indifferenti all’incitamento e all’odio, che mai più saremo in silenzio di fronte al male, che mai più ci lasceremo andare al razzismo e all’antisemitismo, che mai più ignoreremo la sorte dei più deboli, che mai più resteremo indifferenti di fronte alle atrocità di massa e all’impunità.

Parleremo e agiremo contro il razzismo, contro l’odio, contro l’antisemitismo, contro le atrocità di massa, contro l’ingiustizia – e contro il crimine dei crimini il cui nome non si dovrebbe nemmeno nominare: genocidio.

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Cosa ci deve insegnare l Olocausto

L’eterno fascismo italiano. Una gita fuori porta al mausoleo del maresciallo Graziani.

L’eterno fascismo italiano. Una gita fuori porta al mausoleo del maresciallo Graziani.

di Christian Raimo

Ce la si fa in un pomeriggio. Si può prendere l’A24 uscendo a Castel Madama per spingersi verso i monti Simbruini fino al confine del Lazio, salendo in direzione Subiaco e lasciandosi alle spalle astrusi ristoranti cinesi lungo le fermate del Cotral o paesucoli inerpicati che avrebbero dovuto essere le “Cortina d’Ampezzo degli Appennini” nel 1980 – e in cui trent’anni dopo ancora non è arrivata l’acqua corrente – come Monte Livata o Campo dell’Osso, per poi riprendere la statale 411, seguire la “via Cesanese del vino” fino a arrivare dopo un’ora e mezza di tornanti tra gli aceri, i faggi, i lecci con le foglie rossicce in punta, alla curva all’entrata del paese di Affile, e da lì a sinistra salire per una strada sterrata ripida da farsela tutta in prima e parcheggiare accanto a questo benedetto famoso mausoleo dedicato al maresciallo Rodolfo Graziani. Un monumento in mezzo al niente dedicato al cittadino illustrissimo di Affile, al Soldato con la S maiuscola, come dicono qui gli amministratori locali. Oppure al superfascista, come diremmo noi, al responsabile di uno sterminio etnico nella guerra italiana in Cirenaica e in Abissinia, al repubblichino della prima ora, al collaborazionista, al sostenitore acceso delle leggi razziali, al criminale di guerra secondo l’Onu per l’utilizzo di gas tossici e bombardamenti degli ospedali della Croce Rossa, al “macellaio del Fezzan”, al condannato a 19 anni di carcere dopo il 1945 che scontò inspiegabilmente solo quattro mesi, al presidente onorario dell’MSI, al protagonista del brano Lettera al governatore della Libia in qualità di “idiota” (così come lo definisce Battiato).

Questa cosa, chiamiamola così, questo cubo di mattoni con due scritte incise nella pietra (“Patria” a sinistra e “Onore” a destra) che chiudono una bandiera italiana in mezzo, qualora vi foste posti l’interrogativo, è di una bruttezza inappellabile. Una costruzione infantile, demenziale, squallida, che campeggia al lato di una calata di cemento sopra un presunto parco dove sono stati piazzate due riproduzioni di cannone da prima guerra mondiale, dei lampioni ancora non funzionanti, una fontanella, un altro parallelepipedo di cemento più tre tavolini di legno, semmai qualche avventore con un’estetica da militarismo trash volesse farsi un pic-nic, qui, sotto l’occhio di due telecamere che proteggono i confini da mandala del sacrario.

Dentro – nel sancta sanctorum – c’è una testa scolpita di Graziani, anche questa di una fattura talmente grossolana da sembrare una parodia, per terra cinque sei prime pagine incorniciate di giornali del Ventennio (L’Italia, Il secolo dei bei tempi, Il meridiano d’Italia) che inneggiano alle imprese del nostro, una lapide a lui dedicata, un leggio vuoto.

Dopo cinque minuti che siete qui è probabile che la reazione più istintiva che potrebbe scaturirvi è quella di trovare un piccone e vandalizzare questo posto. A neanche un mese dall’inaugurazione c’è chi l’ha fatto e ora la porta del sacrario e le pareti sono tutte zozze di vernice e dappertutto scritte di Assassino che a loro modo lo rendono un monumento all’antifascismo – invisibile (chi mai verrebbe nel borgo montanaro a visitare questa roba?) ma vivo (perché nessuno si prende la briga ad esempio di imbrattare tutti i giorni l’obelisco dell’Olimpico con scritto DUX?).

Ma più interessante delle indignazioni viscerali sono le domande sul perché a un sindaco come Ercole Viri e alla sua piccola cittadinanza venga in mente nel 2012 di farsi dare 127mila euro dalla Regione Lazio e spenderli in questo modo? Insomma, che tipo di sotto-cultura è il fascismo contemporaneo: una passione kitsch tipo quelli che si travestono da cosplay o una recrudescenza di un passato da figli di puttana razzisti e colonialisti mai rielaborato (come per esempio sostengono i libri di Angelo Del Boca dedicati alle nostre guerre d’Africa o quelli di Alberto Maria Banti sulla formazione dell’identità italiana)?

Una mezza risposta la si può trovare pascolando tra un bar e l’altro del centro di Affile o scorrendosi le foto che l’amministrazione locale ha postato per immortalare l’evento dell’inaugurazione. Nei jpg si vedono una trentina di paesani che per una sera, dopo i discorsi solenni, trasformano lo spiazzo del luogo sacro prima in uno stand da sagra con tanto di damigiane e marmitte per una spaghettata e poi in una minibalera quando il sole è definitivamente tramontato.

Anche se siamo soltanto a un’ora e mezza di macchina da Roma, qui al parco Radimonte di Affile sembra di essere in un altro mondo, ma per certi versi in un mondo familiare. Qualcosa di conosciuto piuttosto che un’oscura galassia di nostalgici criminali. Guardatele le facce con la barba non fatta nelle foto, e le magliette stazzonate, e il cameratismo da spiaggia, e le pose da rimorchione, quindi andatevi a leggere un libretto uscito l’anno scorso per Guanda, La canottiera di Bossi. L’ha scritto Marco Belpoliti, partendo da una piccola epifania tanto arbitraria quanto efficace: la somiglianza abbacinante tra le foto d’antan del duce in canotta e quelle del senatur in medesima mise. Per immaginare di capire qualcosa di quel fenomeno viscido che Sciascia definiva “l’eterno fascismo italiano” non bisogna andarsi a studiare Evola ma forse rintracciare invece in un’antropologia ibrida quello che è un carattere nostrano trasversale e perenne. I neofascisti di Affile sono gli stessi provinciali vitelloni che s’iscrivevano al Pnf nel 1925 o che ingrossavano i raduni della Lega ai tempi in cui Bossi invitava alla secessione. Gente di paese che aspira a un balcone a Piazza Venezia o a un palco a Pontida, e che per fare le prove costruisce un monumento al valor patrio qui sulla collinetta accanto all’aia delle galline. Questo tipo di fascismo, ideologico del margine, apologetico del risentimento, fieramente anti-intellettuale, paesano, indiscutibilmente machista, inventore di tradizioni inesistenti, nazionalista in modo cafone com’era in Jugoslavia negli anni ’90, questo tipo di fascismo qui è una forza mimetica che può mutare come un ceppo di virus resistente agli anticorpi di qualunque anti-fascismo. Si può mimetizzare in uno dei tanti leghismi atomizzati che attraversano l’Italia, dalla Sicilia a Belluno, nel citismo redivivo nella Taranto martoriata dall’Ilva, nel populismo bloggarolo di un Grillo che posta sul suo sito l’impresa a nuoto sullo Stretto di Messina… È un fascismo da bar: insulti, gallismo, battutacce sulle donne, un vaffa, un altro giro. Apparentemente marginale; se non corrispondesse all’educazione politica e sentimentale di una parte consistente di italiani. Apparentemente innocuo; fino a quando non si toglie la canottiera, indossa una divisa e imbraccia le spranghe. Qui, in quest’inno di cemento alla maleducazione morale, oggi ha il suo orripilante monumento.

Questo articolo è uscito su Pubblico del 24 ottobre 2012.

L’eterno fascismo italiano. Una gita fuori porta al mausoleo del maresciallo Graziani.