Arabi ed ebrei: la politica della traduzione letteraria

Israel_Palestine-300x187Chiunque sia coinvolto nell’arte della traduzione sa il delicato equilibrio che esso comporta: rimanere fedeli al testo originale, purché si permetta al lavoro brillare di luce propria nella sua nuova incarnazione. Si richiede anche una conoscenza intima dell’altra cultura. Ma quando la politica predomina sulle culture, l’intero sistema si rompe, e la traduzione può assumere un significato completamente diverso.

A causa di oltre sessant’anni di lotte, le opere degli scrittori di Israele e del mondo arabo non sono stati spesso tradotte nei rispettivi paesi.

Tra il XII e il XIV secolo, le traduzioni dall’arabo in ebraico e viceversa erano frequenti. Poeti ebrei e filosofi nei paesi arabi, come Maimonide, hanno scritto prima in arabo, poi hanno tradotto i loro libri in ebraico. Nel XVI secolo è comparso un dizionario di termini medici in arabo, ebraico e latino.

Oggi, il lungo conflitto tra Israele e paesi arabi ha influito pesantemente sulle traduzioni tra le due lingue semitiche, che ora sono viste da molti con sospetto e diffidenza reciproca.

Il quotidiano israeliano Ha’aretz ha recentemente pubblicato un articolo di un editore tunisino sui negoziati con il traduttore israeliano-palestinese Tayeb Ghanayem per la traduzione delle sue opere israeliane in arabo. L’editore ha rifiutato di essere nominato per motivi di sicurezza personale. Un editore libanese che ha anche rifiutato di essere citato pubblicherà una traduzione in arabo di un romanzo dello scrittore israelo-palestinese Sayed Kashua (che scrive in ebraico) la prossima primavera. Gli editori arabi sono discreti quando si tratta di valutare narrativa israeliana o saggistica, ma che poi pubblicano. E i principali giornali arabi pubblicano regolarmente articoli dalla stampa israeliana.

Ci sono ancora poche anime coraggiose in Israele e nelle regioni arabe che stanno sfidando il tabù in uno sforzo per capire l’“altro”.

In Israele, tuttavia, la situazione è diversa. “Ogni giorno, un lettore di arabo può trovare circa 20 articoli tradotti dalla stampa israeliana. Sarebbe difficile per il lettore israeliano trovare un pezzo tradotto [dall’arabo] ogni 20 giorni” ha detto Yael Lerer.

Lerer ha fondato a Tel Aviv Andalus, una casa editrice nel 2000, in cui le culture arabi ed ebree convivevano pacificamente. Andalus era specializzata nella traduzione di letteratura araba in ebraico. Lerer sosteneva che, anche se Israele si trovava nell’epicentro del mondo arabo, gli israeliani, in generale, non erano esposti alla letteratura araba. Diversi autori illustri e poeti come Mahmoud Darwish e Mohamed Choukri, Hanan al Shaykh, Huda Barakat e Elias Khoury hanno accettato di essere tradotti in ebraico.

Eppure Lerer è stato recentemente costretto a interrompere le pubblicazioni; Andalus non vendeva abbastanza libri per rimanere in vita. Lerer attribuisce questo a una mancanza di interesse da parte della popolazione di Israele. Tra il 1930 e il 2000, ha detto Lerer, solo 32 romanzi sono stati tradotti dall’arabo in ebraico.

La traduzione è stata il ‘modus operandi’ di Andalus. In un’intervista nel 2004 Lerer, che parla correntemente l’arabo, ha dichiarato: “L’ebraico e l’arabo sono molto simili. La qualità delle maggior parte delle traduzioni – non solo letterarie, ma anche giornalistiche – è scadente perché la traduzione in ebraico di solito si attiene troppo strettamente al testo arabo. Una frase in arabo può essere espressa in ebraico esattamente con la stessa struttura della frase, ma il risultato stilistico è scarso; l’ebraico suona antiquato e artificiale. Il nostro obiettivo era una traduzione vera e propria. Ciò significa che quando un testo di Mohamed Choukri è tradotto in ebraico, il risultato dovrebbe suonare come se Choukri stesso avesse scritto il testo in ebraico. Dovrebbe essere in ebraico moderno con le caratteristiche dell’arabo di Choukri. Il problema è che molta poca traduzione è fatta dall’arabo in ebraico, quindi non ci sono traduttori professionisti che hanno una vasta esperienza pratica a cui attingere. Tutti i traduttori con cui lavoriamo in realtà hanno altre professioni.”

Una famosa traduttrice scrive: “Le lingue sono molto vicine, ci sono somiglianze nel vocabolario e nella grammatica. L’arabo è una lingua molto ricca, quindi se si vuole giocare con le parole, il linguaggio, la descrizione e le metafore allora si è in un buon posto. L’ebraico ha meno aggettivi quindi bisogna stare attenti. Si deve lavorare di più per trovare qualcosa che corrisponda. È parte della sfida.”

In Israele, è un problema importare libri in arabo o farli passare la dogana. I traduttori dall’ebraico all’arabo sono giudei che erano immigrati in Israele dai paesi arabi, come nel caso di Sami Michael, che ha tradotto la trilogia di Nagib Mahfuz nel 1980. Ma anche gli israeliani palestinesi costituiscono una gran parte di questi traduttori e spesso traducono da entrambe le lingue. Hanno il vantaggio aggiunto di avere una conoscenza profonda di entrambe le culture, un ingrediente essenziale per una buona traduzione. Uno dei traduttori più noti è Anton Shammas, ora con sede negli Stati Uniti, che ha tradotto di Emile Habibi La vita segreta di Saʿīd, il Pessottimista, un romanzo satirico sulla vita di un israeliano palestinese.

L’autore palestinese e traduttore Ala Hlehel scrive: “Ho deciso nel mio primo anno di università di studiare ebraico. Ho pensato che conoscere la lingua ebraica mi avrebbe dato più potere come persona e come parte della minoranza arabo-palestinese in Israele. Mi sono abbonato al giornale Ha’aretz, ho cominciato a leggere letteratura ebraica e controllarne la lingua. Quando ho iniziato a tradurre dall’ebraico all’arabo sono arrivato alla conclusione che avevo bisogno di conoscere la cultura israeliana di più. È possibile tradurre le parole con l’aiuto di un dizionario, ma è necessario conoscere la cultura, al fine di tradurre lo spirito esatto del testo.”

Hlehel ammette che la sua relazione con l’ebraico è molto complessa: “Sono consapevole del fatto che la lingua ebraica usata per dare ordini militari per bombardare i palestinesi a Gaza è la stessa lingua che Hanoch Levin, Natan Zach e Yeshayahu Leibowitz utilizzano. Si tratta di un rapporto molto complicato, in qualche modo misterioso per me…”

Un altro modo in cui la politica ostacola l’arabo e le traduzioni in ebraico è il concetto di “normalizzazione” tra paesi arabi e Israele o tra palestinesi e israeliani.

Nel 2000, quando il ministro israeliano della Pubblica Istruzione annunciò che voleva includere due poesie di Mahmoud Darwish nel programma della scuola superiore, scatenò un putiferio, al punto tale che l’allora primo ministro, Ehud Barak, affermò: “La società israeliana non è matura per studiare Darwish.”

A Yael Lerer erano fin troppo familiari i problemi di “normalizzazione” quando ha fondato Andalus, e si rese conto che la maggior parte degli autori egiziani non voleva che la loro opera fosse tradotta in ebraico. Ma un intero altro gruppo di autori arabi ha concesso i propri diritti di pubblicazione gratuitamente. Lerer disse che “riconosceva i pericoli di creare un falso senso di “pacificazione” e “dialogo” per mezzo della “normalizzazione”. La traduzione di letteratura araba in ebraico è un mezzo per resistere all’occupazione, rendendo la lingua araba e la sua cultura presenti nella vita quotidiana di Israele forme di resistenza all’occupazione.

Molti intellettuali e autori arabi, gran parte di loro egiziani, si rifiutano di vendere i propri diritti di case editrici israeliane. Questo porta spesso alla pirateria, come nel caso del bestseller di Ala al-Aswani, Palazzo Yacoubian.

Lo scorso anno, l’organizzazione con sede a Gerusalemme, il Centro israelo-palestinese per la Ricerca e l’Informazione ha pubblicato in ebraico il romanzo di al-Aswani sul suo sito web. L’organizzazione non ha chiesto il permesso ad al Aswani, affermando che “la questione è che il diritto degli israeliani a leggere quel libro era superiore al suo diritto d’autore.”

Comprensibilmente, al-Aswani si è arrabbiato molto.

Ma la stessa questione della pirateria nel nome della “cultura” si verifica anche in Egitto.

Un autore e traduttore che ha studiato l’ebraico al Cairo dice di aver tradotto un libro dello storico israeliano Idith Zertal senza il suo permesso per una casa editrice egiziana.

“Tradurre la letteratura e gli scritti israeliani di per sé non è un tabù. Il tabù è trattare con le case editrici israeliane, dal momento che questo è considerato “normalizzazione con il nemico”. Ma ci sono delle opzioni. Uno di queste è la versione illegale, che è la migliore di una cattiva soluzione.”

Nel 2009 Eltoukhy, che ha tradotto dall’ebraico numerosi libri e una raccolta di poesie, ha iniziato un blog in arabo dedicato alla letteratura israeliana. Egli aggiunge settimanalmente nuovi testi, e finora ha tradotto circa cento autori israeliani, anche se, per la maggior parte senza il loro permesso.

“Penso che tradurre la letteratura israeliana sia molto importante per noi, come arabi, per due motivi: bisogna penetrare l’ignoranza araba su Israele. Sappiamo solo alcuni nomi come Amos Oz e David Grossman, e spesso non abbiamo letto nemmeno le loro opere. Si tratta di sapere tutto per combattere l’ignoranza. Ci sono anche ragioni politiche: abbiamo bisogno di sapere di più sul paese, sulle tendenze dei suoi scrittori, dobbiamo conoscere le ali di destra e di sinistra. Traduco tutti sul mio blog. Emotivamente mi trovo vicino alle visioni degli scrittori di sinistra, come Yitzhak Laor, Aharon Shabtai, Khanokh Levin, Almog Behar, e un grande pensatore come Ella Shohat, ma traduco tutti i tipi di testi, compresi quelli che non hanno significato politico. Dovremmo sapere di più su tutti i tipi di scrittura. Ogni giorno scopro un nuovo scrittore che non conoscevo prima, e questo è incredibile”.

Acquisire conoscenze su un’altra cultura è essenziale per Ramallah Madar, il forum palestinese per gli studi israeliani, che ha un’unità di traduzione e di pubblicazione.

Honaida Ghanim, un israeliano palestinese con un dottorato in sociologia presso l’Università Ebraica è il direttore di Madar. Madar acquista il diritto d’autore dagli editori israeliani e generalmente pubblica quattro libri all’anno tradotti in arabo. Madar pubblica libri soprattutto politici e sociologici e occasionalmente di narrativa, come i racconti di Oz Shelach.

Si può sperare che verrà un giorno in cui le traduzioni dall’arabo all’ebraico e viceversa riprenderanno. Come Edith Grossman ha scritto nel Perché materia di traduzioni “La traduzione afferma la possibilità di una coerente esperienza unificata della letteratura nella molteplicità del mondo delle lingue. Allo stesso tempo, la traduzione celebra le differenze tra le lingue e le molte varietà dell’esperienza umana e della percezione che possono esprimere. Non credo che questa sia una contraddizione. Piuttosto, testimonia il comprensivo abbraccio tra letteratura e traduzione”.

Arabi ed ebrei: la politica della traduzione letteraria

Vivere in tempo di crisi

Vivere in tempo di crisi

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Questo è un kit composto da 15 antidoti che costituisce un’importante prevenzione per le ansie generate dal contesto sociale che viviamo.

È importante cambiare mentalità e non essere investiti dalle folate di vento di disillusione, di ansia per il futuro. Vivrà meglio chi capirà prima e sarà in grado di disporsi al cambiamento.

Saranno inevitabili alcune generalizzazioni e semplificazioni che mi perdonerete.

1. Il primo antidoto che tiriamo fuori dalla valigetta si chiama “Decrescita”. Per la definizione e la storia vi rimando a Wikipedia. In estrema sintesi, il pianeta non può sopportare il modello di sviluppo dominante dall’ultimo dopoguerra in poi.

Se in termini generali possiamo anche essere convinti dell’opportunità di rivedere il ciclo produzione-consumi, nel particolare delle vite di tutti noi tutto ciò implicherebbe assumere dei comportamenti che implicherebbero cambiamenti importanti e difficili da digerire: per vivere in maniera coerente alla decrescita è necessario quindi un vero e proprio lavoro di ridefinizione psicologica delle nostre abitudini.

 

2. Ciò che la “Decrescita” rappresenta a livello globale il “Downshifitng” declina a livello personale, nelle nostre vite di tutti i giorni. Anche qui per la definizione rimando a Wikipedia ed alle varie pubblicazioni sul tema. La scelta della semplicità volontaria nasce da professionisti e dirigenti che decidono di impiegare diversamente il proprio tempo, vivendo in maniera frugale e risparmiando così risorse da dedicare alla famiglia, agli affetti, al volontariato, alla coltivazione di sé.

I più giovani in attesa di lavoro o con lavori saltuari obietteranno che per loro il “down” non è una scelta, ma una condizione obbligata. Ancora di più cambiare mentalità verso una vita frugale ed essenziale diventa una necessità impellente, un fattore di sopravvivenza e non una scelta che per ora è classificata da molti un po’ snob e fondamentalmente aristocratica.

Cercare con soddisfazione l’essenzialità ed il recupero del tempo per se stessi e per gli affetti combatte il senso di frustrazione permanente.

 

3. Terza idea per la sopravvivenza è una nuova rivoluzione copernicana: Copernico mise finalmente il sole al centro e non la terra, ora dobbiamo mettere al centro il Tempo e non il Denaro. Il tempo non è denaro, come si diceva una volta, ma un bene limitato che non si può scambiare, che si perde irrimediabilmente non appena trascorso, ed il suo trascorrere è ineluttabile.

È vero che se non c’è denaro sufficiente il tempo può essere gramo, è anche vero che la soglia della “sufficienza” del denaro non è oggettiva ma influenzata dalla morale, da usi e costumi. In altre parole lavorando sui falsi bisogni si può diminuire di molto il denaro necessario a fare una vita soddisfacente. I beni materiali spesso sostituisco un orizzonte di senso difficile da trovare nella vita, costituiscono una soddisfazione immediata che esime le persone dall’interrogarsi sul senso della propria esistenza, dal guardarsi dentro e leggere eventuali fonti di insoddisfazione. Spesso ci si getta sui beni materiali perché si ha paura di crescere e cambiare.

In passato, chi si indebitava era guardato con sospetto: magari vivere di poco, ma del proprio. Dagli anni ’60 l’indebitamento è diventato un valore, rate per la lavatrice, la tv, la macchina nuova, più spaziosa, potente e prestigiosa. Poi vennero i mutui e gli italiani (unici nel mondo occidentale) diventano quasi tutti proprietari di casa, perché l’affitto sono “soldi buttati”. In realtà la proprietà di quelle case è per lo più delle banche, in attesa che le famiglie paghino i mutui. La propria vita in mano alla banca, per 15, 20, 25 anni! Spesso nella voglia di crescere ed emanciparsi si acquista una casa più grande, bella e cittadina di quanto sia indispensabile, ed il criterio del denaro sufficiente per vivere cresce, cresce esponenzialmente.

Questo è un’importante fattore di ansia cronica, la tanto desiderata casa di proprietà diventa un Moloch al quale sacrificare la propria vita ed il proprio tempo.

Essere indebitati è “buono”, con poco al mese possiamo avere macchina nuova, il televisore, il computer nuovo, e ci mangiano il Tempo e l’anima, la serenità, che sono gli unici due beni non sostituibili.

 

4. Quarto antidoto è la considerazione oggettiva dei nostri tempi: viviamo più a lungo e meglio, la medicina ha fatto passi da gigante, la gente può avere un’istruzione, siamo più attenti del passato all’infanzia, alle persone più deboli, alla natura ed agli animali, il concetto di razza è sostanzialmente abolito e nasce il dialogo interreligioso. C’è ancora moltissimo da fare, ma solo 50 anni fa tutto ciò sarebbe stato impensabile!

Abbiamo un’aspettativa di vita lunga e relativamente comoda ed istruita. Volere sempre di più, riferito specialmente ai beni materiali, fa in modo di creare nelle persone uno stato di perenne frustrazione e lamentela che ci fa dare per scontato il fatto che i miei genitori sarebbero potuti morire per una semplice polmonite che oggi si cura con 10 giorni di antibiotici e di riposo a casa.

Così viviamo di più, ma rischiamo di farlo depressi e svogliati, frustrati perchè guardiamo sempre a tutto ciò che non abbiamo.

 

5. Gianbattista Vico, XVIII secolo, e Oswald Spengler, XX secolo, ci insegnano che la storia non è un percorso lineare, ed Arnold J. Toynbee, allievo di Spengler, riprende ed esalta la nozione di cicli storici parlando delle civiltà come creature che hanno un loro ciclo vitale, nascono, crescono, invecchiano e muoiono. La principale opera di Spengler si intitola “Il tramonto dell’Occidente”.

Se esistono i cicli in storia dobbiamo allenarci a pensare che l’idea che il futuro sarà sempre garantito è fasulla. Posti di lavoro a tempo indeterminato, stato sociale, pensioni erogate con il metodo contributivo, costi faraonici della politica e dell’apparato statale, risorse dello stato distribuite in maniera clientelare, lavoro per lo Stato e contemporaneo lavoro in nero che permette di pagare la casa al mare e l’Università ai figli appartengono ad un altra epoca.

Il garantismo sindacale si tramuta in scontro generazionale, tra chi ha un lavoro ipergarantito e chi il lavoro non ce l’ha punto. Un giovane che non riesce a lavorare vede con orrore gli operai che si lamentano della cassa integrazione, grazie alla quale invece che perdere il lavoro possono stare a casa pagati, magari poco, ma pagati.

La condizione precedente non è prorogabile, le risorse sono state consumate tutte. Chi gode ancora di privilegi prova a tenerseli stretti, ma per chi non gode di privilegi desiderarli è fonte di frustrazione, ansia, depressione. Smettiamo di desiderare quello che non possiamo avere.

I privilegi sopra elencati non sono esistiti in tutte le epoche ma, considerando i tempi storici, in un breve periodo di esaltazione legato al progresso tecnologico e ad un periodo relativamente sgombro da guerre devastanti.

6. Considerare le cose “sub specie aeternitatis”, come diceva Spinoza: uscire dalla continua attenzione alla nostra esistenza individuale e storica limitata nel tempo.

Guardare più in là, alle generazioni future ed alle altre persone.

Guardare più in su se si possiede una forma di religiosità e di trascendenza.

Dice il filosofo: “ La beatitudine non è il premio della virtù ma la virtù stessa; e non ne godiamo perché reprimiamo le nostre voglie; ma viceversa, perché ne godiamo possiamo reprimere le nostre voglie.”

7. Ridimensionare le aspettative senza per forza rinunciare ai sogni. Il problema della disoccupazione intellettuale è legato al fatto che la società italiana non è realmente evoluta al passo con il quale sono evolute le aspettative di miglioramento della condizione sociale. Si laureano molte più persone di quante un’Italia fondamentalmente sclerotica, gerontocratica ed arretrata riesca ad assorbirne. Oggi laurearsi non è poi così difficile, le Università pubbliche costano poco, genitori con il diploma superiore o con la terza media mettono al centro della loro vita l’aspettativa di avere un figlio laureato, ci si può laureare anche impiegando 10 anni per compiere un percorso di studi per il quale ne servono la metà.

Spesso ci si laurea impiegando troppo tempo e con percorsi di studi di scarsa qualità. Un tempo bastava laurearsi comunque e sperare in un concorso, prima o poi entravano tutti, bastava uno zio democristiano o socialista, la laurea era solo un pretesto. Oggi le raccomandazioni non sono finite, anzi, ma ci sono meno risorse, quindi i laureati devono confrontarsi con il mercato del lavoro che vede l’Italia fanalino di coda nelle professioni intellettuali, devono poi confrontarsi, in epoca di globalizzazione, con i giovani colleghi stranieri, forse meno forti sotto l’aspetto teorico ma più preparati per lavorare.

Non rimane che puntare sulla laurea come strumento di crescita personale, non strettamente legato alla possibilità di utilizzare quella laurea in modo tradizionale. In altre parole occorre sentire il famoso discorso che Steve Jobs tenne alla Stanford University nel 2005 (disponibile su Youtube), leggere la sua biografia (magari per completezza leggere anche “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”) e farsi così l’idea che i percorsi lineari e scontati non esistono più ed occorre fare un bell’esame di realtà ed un business plan, valutare il proprio grado di creatività, spirito di sacrificio e disponibilità al cambiamento prima di infilarsi in una situazione potenzialmente frustrante come le formazione universitaria.

Dedicare invece un tempo sistematico alla conoscenza, a coltivare se stessi nella cultura, secondo le proprie inclinazioni e le proprie possibilità, senza che ciò abbia un’immediata ricaduta utilitaristica.

 

8. Lavorare meno, per scelta o perforza, ridurre i consumi al minimo essenziale, scegliere di non abitare perforza al centro di una grande città, visto che il fiorire delle seconde case ha svuotato i piccoli Comuni, dove si possono trovare soluzioni abitative affascinanti e meno costose, con ritmi più rilassati e più tempo per coltivare se stessi. Non esiste solo la metropolitan way of life, adottata purtroppo anche nei piccoli centri.

 

9. Osservare e non subire le stagioni che cambiano, osservare ed assaporare i cambiamenti giornalieri della luce, dei suoni, degli odori. Rallentare quando viene sera e comunque quando siamo stanchi, senza violentare continuamente il nostro sé mantenendolo in uno stato di accelerazione permanente, incurante dei segnali del corpo e dell’ambiente.

 

10. Mantenere costante l’esercizio fisico, curare la postura, la respirazione. Non sono indispensabili le costose palestre.

 

11. Affrontare l’horror vacui. Talvolta viviamo un “tutto pieno” che ci permette di non pensare, di non sentire, di non sperimentare la paura del vuoto, dell’incertezza della vita e del futuro. Correndo, annaspiamo verso certezze che comunque non arrivano e bruciamo così il tempo che abbiamo a disposizione.

 

12. Rendiamo sacro ed importante ogni gesto della nostra vita, anche i più piccoli ed insignificanti. Apparecchiamo la tavola con cura, con amore, lentamente e con senso estetico. Prepariamo il cibo con calma e mangiamo lentamente.

 

13. Seguiamo al massimo un notiziario al giorno. I toni enfatici con cui vengono trasmesse le notizie, il martellamento mediatico, il catastrofismo sparato come colpi di mitraglia, l’illusione di poter avere sotto controllo gli eventi se consultiamo continuamente telegiornali e agenzie di stampa attraverso tv, smartphone o tablet non fanno altro che aumentare i livelli di ansia e depressione.

Disinstallate dagli smartphone tutte le agenzie di stampa e le notizie real time. A meno che non siate giornalisti che si occupano di cronaca, finanzieri o agenti di borsa non vi serve conoscere tutte le ore l’andamento delle Spread, vi viene solo angoscia e comunque non cambia nulla di sostanziale.

 

14. Godere dell’arte in tutte le sue forme, intesa sia nell’aspetto creativo contemplativo che nell’aspetto produttivo della tecnica. L’arte crea delle forme, come la natura, contemplare l’arte e creare delle forme è un processo naturale, non occorre essere Van Gogh, basta dedicarsi all’ascolto ed all’osservazione, alla fotografia, al cinema, alla musica, entrare in una chiesa del XIV secolo, oppure anche mettersi in grado di riparare un mobile, una finestra. Creare e contemplare. Il bello cura.

 

15. Rendere il viaggio parte della propria vita. Il viaggio è una dimensione interiore, come insegna I Vagabondi del Dharma, romanzo meno noto di Kerouac. Non sempre il viaggio costa, è possibile camminare, come insegnano i progetti come Camminare per conoscere. Siamo pieni di borghi, chiese, monasteri, riserve naturali, anche vicino a casa di ciascuno di noi. L’Italia potrebbe vivere di natura e cultura.

 

Vivere in tempo di crisi

Dire basta a Mario Monti

Mario-Monti-Bocciato1Dire basta a Mario Monti

Un dato è certo: Mario Monti ha peggiorato la crisi economica. Non è ancora l’ultima resistenza del generale Custer, ma per Italialandia è iniziato il più lungo e noioso film che Cinecittà abbia mai realizzato. Il generale Mario Monti si dimette, ma poi ritornerà in politica sostenuto dalle forze politiche centriste e di destra (tra cui il sostegno della classe politica più ricca del Paese, Casini e Montezemolo, e dello stesso claunesco Berlusconi).

Monti è stato in grado di fornire strumenti per la crescita del Paese?

L’economia dell’austerità è andata avanti per un anno secondo copione. Il generale Monti ha indotto il popolo italiano ad accettare la medicina amara dell’austerità, più e più volte, non riuscendo a produrre risultati. Cosa lascia Monti? Un’Italia in depressione.

L’anno del Commissario Monti in carica è stata una bolla, che, per gli investitori, è sembrata buona finché è durata ma ora si è sgonfiata. E non ci vorrà molto tempo a capire agli italiani e agli investitori stranieri che è cambiato davvero poco rispetto al 2011, tranne che l’economia è caduta in una profonda depressione.

Gli aumenti delle tasse e i tagli alla spesa sociale (istruzione e sanità) hanno un effetto controproducente. Riducendo sia il debito sia la crescita, il rapporto debito-PIL nel breve periodo è aumentato, e nel lungo si ridurrà ancora. Il peggioramento nella sostenibilità del debito pubblico italiano diventerà molto più chiaro il prossimo anno, quando avremo più dati statistici sugli effetti calamitosi dell’austerità.

Grazie all’apparenza di affrontare la crisi in Italia, Monti è stato in grado di costruire un consenso chiaro più tra alcuni politici che tra la gente. Avrebbe potuto mantenere il potere per emanare un reale cambiamento ma così non è stato. Certa classe politica italiana è stata opportunista nel volteggiare come un avvoltoio che aspettava il momento di colpire. Solo alcuni gruppi politici hanno puntato il dito contro Monti fin dall’inizio, tra cui Di Pietro e Vendola. Lo stesso Bersani oggi si smarca, per affermare la leggittimità della sua premiership. Nulla toglie che questi ultimi tre politici restino dei fedeli europeisti. Gli unici in grado, con il neonato Movimento arancione, di fronteggiare uniti il centro-destra e la squadra degli antieuropeisti reali capeggiati da  Beppe Grillo, la Lega e Berlusconi.

Poi c’è il dilemma di come fronteggiare Angela Merkel, l’uomo più potente del pianeta, dopo Barack Obama, s’intende.

Frau Merkel attende che anche il nuovo esecutivo sia ai suoi comandi. Forse farebbe bene a difendersi nella prossima campagna elettorale. La sua riconferma del cancellierato non è certa per la terza volta consecutiva. Sta di fatto che il nuovo premier non potrà solo ossequiare la cancelliera, come ha fatto Monti. Un confronto sui temi delicati della crescita e sugli strumenti per evitare di deprimere ulteriormente l’economia italiana passa anche da una presa di coscienza della signora Merkel.

La vecchia convenzione che Mario Monti sia il riformatore di cui l’Italia ha bisogno non si basa sulla realtà.
L’Italia ha bisogno di un governo con una solida legittimità democratica nella forma di un voto a maggioranza popolare. Questo governo potrebbe avere più forza per perseguire il tipo di riforme strutturali che l’Italia ha urgente bisogno per rilanciare la crescita  perché questo è il vero problema, piuttosto che quello del debito e la riduzione del disavanzo. Le manovre montiane anche in questo hanno fallito e le innumerevoli tasse imposte soprattutto alle classi sociali meno abbienti non sono state accompagnate da un aumento dei consumi.

Chi oggi si appresta a salire sul “cavallo di Troia” del tecnocrate Monti, cercando di tirarlo per il bavero a presiedere il futuro governo dell’Italia, farebbe bene a non nascondersi dietro gli scudi. Casini, parte del Popolo delle Libertà e il neofita Montezemolo (stipendiato con circa 6 milioni di euro annui) farebbero bene a metterci la faccia. Molti esponenti del centro-destra pensano che la copertura del generale Monti possa garantire loro l’espropriazione (meglio chiamarla così che “riconferma”) del seggio parlamentare (illegittima in termini di moralità per molti degli attuali deputati secondo il giudizio di molta gente), nonostante siano inguardabili. Meglio indossare la maschera di Monti piuttosto che farsi riconoscere.

Dire basta a Mario Monti

Si leggono ancora libri?

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Le persone leggono sempre meno libri. In molti casi, oltre a libri religiosi e libri di testo necessari, forse, è difficile trovare libri che sono letti nel tempo libero. Non dobbiamo minimizzare l’effetto devastante su un popolo, di una non-cultura della lettura. La gente dovrebbe leggere. In realtà, le persone non leggono, ma ciò non è proprio evidente. La realtà è che i libri sono in competizione con molti altri mezzi per l’attenzione della popolazione. Siamo diventati afflitti da disturbi da deficit di attenzione, grazie a Internet. Internet ha cambiato le nostre vite e ci ha cambiato in modo misterioso. Non ci sono confini che Internet non possa violare. È inarrestabile nell’abbattere muri fisici.

Lasciatemi ammettere che ci sono aspetti negativi significativi alla crescente globalizzazione del nostro mondo. Tuttavia, se chiedete a una persona che vive in un posto sperduto, la tecnologia l’ha liberata dalla solitudine. Ha il telefono cellulare, si fa raggiungere in qualsiasi momento. Non puoi sapere quanti usi può avere il cellulare. Nelle notti in cui non c’è corrente in casa tua, puoi usare il cellulare come una torcia per trovare il bagno.

Siamo testimoni viventi di cambiamenti sismici nel modo in cui ora si accede al processo delle informazioni. L’industria dell’editoria tradizionale è alle corde, sostenuta solo dalla prepotenza di coloro che insistono sul fatto che i libri devono essere scritti, e che verranno letti se la gente va nei centri commerciali e compra i libri. Ci siamo ridotti a vendere i libri al supermercato, come merce disposta sullo scaffale tra un barattolo di fagioli e un ammorbidente. Ma poi ovunque si guardi, i giornali stanno morendo, stanno finendo in decomposizione. Sopravvive solo la pubblicità, mentre le notizie sono diventate secondarie, si potrebbe dire, superflue. Forse un domani leggeremo sulla carta stampata solo i necrologi. Edicole, librerie: tutto superato, stantio, antico, inutile. Leggerò il mio giornale sul mio iPad o smartphone.

L’editoria tradizionale è alle corde. Non sopravviverà per molto tempo.

Le case editrici si stanno rifacendo il look, sforzandosi di recuperare lo spazio che è minacciato dalla democratizzazione della pubblicazione – che ci è regalata gratis su Internet. Le case editrici sono in competizione con i nuovi strumenti di espressione. La gente sta andando verso il nuovo mezzo come fonte primaria di informazione, educazione e intrattenimento. Le case editrici tradizionali hanno molto da essere preoccupate. Esse storicamente dipendevano dal libro per la loro sopravvivenza.

Il libro è avviato a una morte molto lenta?

Ma ci siamo chiesti se non è vero che le nuove tecnologie possono anche aggravare il divario economico tra abbienti e non abbienti all’interno e tra le nazioni? Gli scrittori si lamentano che la gente non legge più. Ma poi, è vero che la gente non legge? Forse non legge più libri, ma legge nei cyber-caffè, e nei posti di lavoro. Ovunque la vita lo consenta, la gente legge senza sosta. Non leggerà libri, ma legge tonnellate di roba sui propri telefoni cellulari, sui computer portatili, su qualsiasi cosa abbia uno schermo. I nostri scrittori hanno solo bisogno di trovare un modo per consegnare creativamente le loro idee usando questo mezzo.

La gente in realtà legge molto più di quanto pensiamo. Dobbiamo passare le nostre idee dove sono le persone. C’è una fucina di giovani che naviga sui social network: Twitter e Facebook. Legge l’equivalente di un capitolo di un libro al giorno, solo che non se ne rende conto. La fame di lettura è tutta lì.

Si leggono ancora libri?